25/04/22

L'altra resistenza

Nel Regno delle Due Sicilie, dopo l'invasione del 1860, la libertà di stampa diventò un'illustre sconosciuta. Una delle storie legate all'epurazione praticata dal neonato Regno d'Italia, ha contorni particolarmente interessanti, pur nella sua drammaticità.

        Nella basilica di San Giovanni Maggiore a Napoli, più volte si ritrova in epigrafe il nome di Giuseppe Pelella (1) che fu sacerdote, parroco e canonico di questa collegiata e canonico della cattedrale. La loro collocazione è la seguente:
- al centro del pavimento innanzi l'ingresso principale;
- nei pressi della prima cappella della navata destra (con busto);
- all'esterno sopra l'ingresso laterale;
- sulla parete sinistra dell'atrio di tale ingresso.

Il motivo di tanto riconoscimento sta nel fatto che a mons. Pelella è dovuta la sopravvivenza di questa antichissima chiesa, la cui fondazione risale addirittura al IV secolo per volere dell’imperatore Costantino, su un preesistente tempio romano. Essa fu più volte rimaneggiata nei secoli successivi, anche a causa di eventi naturali che la danneggiarono, fino al 1° agosto 1870 allorché crollò la navata centrale e parte di quella destra. È a questo punto che entra in scena la saggezza e la tenacia del Pelella il quale, a fronte della volontà delle istituzioni civili di abbattere del tutto la chiesa, “peregrinando, scongiurando, piangendo”  come ricorda una delle iscrizioni – raccolse fondi e ne avviò la ricostruzione, cui fece seguito la riconsacrazione il 12 maggio 1889. Grazie alla sua leale perseveranza, oggi abbiamo ancora un monumento di grande valore storico e architettonico.

La resistenza di Giuseppe Pelella, del resto, si era già manifestata ben prima degli eventi legati alla basilica e cioè all’indomani dell’occupazione del nostro Regno delle Due Sicilie, tragico evento accompagnato dalle bugie e sopraffazioni che ogni invasione reca con sé. 

Il sacerdote era promotore di varie pubblicazioni, per la diffusione – come si diceva un tempo – “di buoni e divoti libri” (2). Egli stesso ne risultava editore e venditore: “Presso il Sac. Giuseppe Pelella - Strettola di Porto n. 21 2. p.”, a breve distanza da San Giovanni Maggiore; la stampa avveniva sempre localmente, come presso la Stamperia del Fibreno (strada Trinità Maggiore 26 e strada Pignatelli a San Giovanni Maggiore). Ne è esempio la collana “Raccolta di libri religiosi ed ameni” che ogni mese proponeva un libro in 16° dal costo contenuto. In questa serie spicca “Omaggio a  Pio IX” (1862), una miscellanea di articoli accolta con significativo gradimento. Le pagine puntavano a chiarire il volto tetro dell’invasione, occultato sotto la maschera dell’unificazione italiana. Un testo così non poteva non suscitare l’attenzione degli occupanti, cui la violenza contro il dissenso - espresso in tanti modi e non ultimo attraverso la stampa -  non era per nulla estranea.

Lord Henry Lennox (5).

     Un’eco della repressione della libertà di stampa era arrivata anche in Europa. L’8 maggio 1863 Lord Henry Charles George Gordon Lennox, che aveva visitato Napoli da “fervente sostenitore di Vittorio Emanuele”, come egli stesso afferma, fece un resoconto alla Camera dei Comuni di ciò che aveva visto (3), denunciando il clima di oppressione che regnava nelle ex Due Sicilie annesse al neonato Regno d’Italia. Il suo intervento si può paragonare alla mozione (4) del Marchese di Normanby, alla Camera dei Lords, del 1° marzo 1861. Nel lungo discorso Lord Lennox si soffermò sul dispotismo del regime che si manifestava, ad esempio, in un rigido controllo della stampa. A Napoli cita il caso di ben 27 giornali che avevano subito violenze da parte della polizia e avevano poi cessato le pubblicazioni. Raccontò l’assalto al giornale “Napoli” da parte di una squadraccia di duecento persone, capeggiate dalla Guardia nazionale: quella utilizzata per reprimere le rivolte e la resistenza bollata come brigantaggio. Fecero irruzione nei locali, distrussero la macchina da stampa, strapparono i giornali, sparsero i caratteri in giardino e minacciarono di morte il direttore se avesse mai pubblicato un solo altro numero.

   Una persona come don Giuseppe Pelella non poté sfuggire alla repressione, la quale calò pesantemente su di lui in qualità di direttore del periodico “L’ape cattolica. Raccolta religiosa, scientifica, letteraria”. Fu perseguito penalmente e la sua sentenza (6) emessa nel 1863 dalla I Corte d’Assise di Napoli: “Accusato di reato dell’impiego del mezzo della stampa tendente a provocare alla ribellione contro le forme politiche imperanti”. Tra le varie contestazioni di natura politica, concernenti alcuni articoli apparsi su quella rivista, spicca il fatto di avere pubblicato uno scritto “col titolo Decretum Regni Utriusque Siciliae” il quale “contiene il reato dell’impiego del mezzo della stampa, proclamandosi in queste provincie la esistenza di un regno delle Due Sicilie, per impugnare formalmente l’autorità costituzionale del Re e delle Camere nelle provincie medesime”. Don Giuseppe Pelella il 7 marzo 1863 fu condannato “alla pena di mesi quattro di carcere, alla multa di ducati dugento, ed alle spese del procedimento”.

Lo scritto inserito nella rivista (7) anzitutto denunciava la persecuzione dei sacerdoti, “imprigionati e tratti innanzi ai tribunali” per avere applicato le disposizione liturgiche del Papa e richiamate da un decreto del 20 marzo 1862. Segue, appunto, tale testo che ribadisce il divieto di apportare modifiche al Messale, citando proprio il caso delle diocesi “Regni Utriusque Siciliae” cui era stato ingiunto di nominare Vittorio Emanuele in alcune celebrazioni. Pelella, dunque, aveva pubblicato un documento della Santa Sede in cui esplicitamente si parlava di Regno delle Due Sicilie, accompagnandolo con alcune annotazioni e ponendolo sotto il titolo “Decretum Regni Utriusque Siciliae”: di fatto affermando l’esistenza del nostro Regno. 

    Egli, pertanto, fu riconosciuto colpevole di avere proclamato l’esistenza del Regno delle Due Sicilie a due anni dalla sua forzata dissoluzione. Un gesto di resistenza disarmata, carico di inventiva e coraggio, con il quale Pelella metteva in discussione le istituzioni introdotte arbitrariamente con una guerra di invasione, così richiamando l’attenzione sull’evidente ingiustizia. Si trattò di un'azione evidentemente tesa a creare opinione ("provocare alla ribellione contro le forme politiche imperanti", dice la sentenza), dai chiari e impattanti contorni politici ("impugnare formalmente l’autorità") e ritenuta meritevole di condanna penale poiché delegittimante il regime. L'iniziativa era ancor più destabilizzante perché le pubblicazioni di don Giuseppe Pelella, essendo solitamente agili ed economiche, potevano avere più larga diffusione: "ogni mese stampa un buon libretto che si vende a prezzo tenuissimo secondo il numero dei fogli che conta" (8).

Uno dei principi base della difesa nonviolenta è smettere di collaborare con l’oppressore, al fine di farne implodere le forze per mancanza di sostegno. Una pratica estremamente impegnativa che richiede consapevolezza, spirito di sacrificio e creatività. Anzitutto perché bisogna scoprire le forme di collaborazione: spesso abitudinarie o giustificate da condizioni di necessità ritenute insormontabili. Poi perché occorre affrontare la reazione della controparte che può essere dura e, addirittura, spietata. La vicenda delle ventiquattro educatrici napoletane (dette "maestrine") che nel 1862 praticarono la disobbedienza civile contro il regime usurpatore, responsabile della cancellazione sanguinosa della nostra indipendenza, non fu un caso isolato. Accanto alla resistenza armata, più conosciuta e oggetto di una repressione feroce, se ne sviluppò anche un’altra fatta di azioni più difficilmente controllabili, a volte eclatanti e a volte simboliche, assai pericolose per la tenuta del sistema, il quale aveva bisogno - come dovunque e sempre accade - di credibilità, riconoscimento, consenso, obbedienza. 

Gazzetta del Popolo.

Il quotidiano piemontese "L'Italiano - Gazzetta del Popolo", in una coincidenza tristissima che vale la pena menzionare, il giorno 10 marzo 1863 riportò, a p. 5, la notizia della condanna di don Pelella in Corte d'Assise, unitamente a quella in Corte d'Appello di mons. Giuseppe Tipaldi, coinvolto nella vicenda delle maestrine coraggiose. Del resto, la conclusione del citato discorso di Lennox dell'8 maggio 1863 è drammatica ed eloquente: “I shall welcome with grateful joy any reforms, by whomsoever brought about, which will restore to that fair land—fairest among the fair—the possession of happiness and liberty, and does not leave her any longer a prey to the worst of despotisms and the most maddening of sufferings” (9).

Madonna del Principio,
con il mosaico del 1322
di Lello da Orvieto.

Il 9 marzo 1863 padre Giuseppe Pelella ottenne la libertà provvisoria dietro pagamento di una cauzione di ben 300 ducati. Il 18 novembre dello stesso anno fu ammesso al beneficio dell'indulto - come altri dissidenti - dalla I Corte d'Assise: la pena era estinta ma non il reato.

Mons. Pelella, fu nominato Canonico della Cattedrale il 22 febbraio 1891 (10) e due anni dopo fece restaurare nel Duomo, a proprie spese, il pavimento della cappella della Madonna del Principio in Santa Restituta, come ricorda un'epigrafe ai piedi dell'altare. Morì l'8 gennaio 1898 proprio il giorno di questa festa (11).

La strada Strettola di Porto, teatro dell'iniziativa, non esiste più: a seguito dei lavori del cosiddetto Risanamento, venne inglobata nell’attuale via Mezzocannone. L'edificio fu raso al suolo. 

L'iscrizione sul pavimento della cappella.



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(1) Era figlio di Mattia Pelella e di Antonia Angela de Luca originari di Casoria, dove si sposarono il 26 gennaio 1806 nella collegiata e parrocchia di San Mauro, poi abitanti a Napoli nella zona dei Lanzieri, in cui Mattia svolgeva l'attività di negoziante. Il bambino fu battezzato coi nomi di Giuseppe Raffaele Tommaso proprio nella chiesa di San Giovanni Maggiore il 19 dicembre 1817 (Archivio Storico Diocesano di Napoli, Fondo Sacra Patrimonia, fascio 635, n. 315).

(2) La scienza e la fede. Raccolta religiosa scientifica letteraria artistica, anno XXIII, vol. 50, All'Uffizio della Biblioteca cattolica, Napoli 1863, p. 80.

(3) Henry Charles George Gordon-Lennox, discorso alla Camera dei Comuni, Londra, 8 maggio 1863, in House of Commons, Hansard, vol. 170.

(4) Constantine Phipps Marchese di Normanby, mozione alla Camera dei Lords, Londra, 1 marzo 1861, in House of Lords, Hansard, vol. 161.

(5) La foto, qui pubblicata su licenza Creative Commons della National Portrait Gallery di Londra, fu scattata a Napoli nel 1860, in uno studio fotografico sito in via Santa Lucia 28.

(6) Archivio di Stato di Napoli, Fondo Corte d'Assise, anno 1863, busta 2, ff. 39-41.

(7) L'ape cattolicaquaderno XIII, vol. 2°, anno II, 2 gennaio 1863, p 452.

(8) La civiltà cattolica, anno XIV, serie V, vol. V, Roma 1863, p. 480.

(9) House of Lords, op. cit., vol 170, col. 1440. “Accoglierò con grata gioia ogni riforma, da chiunque operata, che restituisca a quella bella terra - la più bella tra le belle - il possesso della felicità e della libertà, e non la lasci più a lungo preda del peggiore dei dispotismi e della più esasperante delle sofferenze”.

(10) Archivio Storico Diocesano di Napoli, Bollario 1890-1903, ff. 24 v.- 25.

(11) Paschale Santamaria can., Historia collegii patrum canonicorum metrop. ecclesiae neapolitanae ab ultima eius origine ad haec usque temporaex typis Francisci Jannini et filiorum, Napoli 1900, p. 450.

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