La Fontana della Bolla, che si trova alle spalle di Castel
Capuano, reca un'iscrizione del 1583 che ne ricorda la realizzazione al tempo di Re Filippo (I di Napoli e II di Spagna): attira facilmente l'attenzione, mentre decisamente più ignorata è quella, sempre dell'epoca di Filippo, lungo il fianco del castello alla destra della fontana. Questa epigrafe è di grandi
dimensioni e sormontata da quattro stemmi. Il protagonista è uno dei
migliori viceré di Napoli che, come il
suo immediato predecessore, ebbe particolari meriti per la salute pubblica.
PHILIPPO I REGNANTE
DON IOANNES ZVNICA NEAPOLIS PROREX
VT AFFECTAE MORBO CVSTODIAE, NON
COMMODIORI MODO, SED AMOENIORI
ETIAM LOCO CVRENTVR VALETVDINARIVM
QVOD MVLTI ANTE PROREGES DESTINARANT
FELICITER EXTRVSSIT, QVO TEMPORE
FILIPPVS REX CATHOLI . ET IDEM
DNVS NOSTER, DEVICTOS BELLO
LVSITANOS, IN SVAM DITIONEM REDEGIT
M . D . LXXX .
L’iscrizione,
datata 1580, regnante Filippo I e con viceré Giovanni Zuniga (Juan de Zúñiga y
Requeséns, Principe di Pietraperzia), celebra la vittoria in Portogallo per difendere il diritto di Filippo al trono, alla quale contribuì
lo Zuniga con le forze spagnole presenti a Napoli, ma anzitutto la realizzazione nelle carceri della Vicaria (Castel Capuano) di un’infermeria per la cura
dei prigionieri.
Questo viceré rimase in carica fino al
novembre del 1582 e, dunque, si trovò coinvolto nella riforma del calendario introdotto quell'anno da papa Gregorio XIII, del quale prese il nome: calendario gregoriano. Questa riforma del calendario fu elaborata dal calabrese Luigi Giglio, che aveva studiato a Napoli. Di fatto, tuttavia, fu presentata al Papa nel 1576 dal fratello, Antonio Giglio, giacché Luigi era già morto. Nel 1582, dunque, per effetto dell'introduzione del calendario gregoriano, dal 4
ottobre si passò direttamente al 15 ottobre, per sanare la regressione dovuta
all’imprecisione del precedente calendario giuliano. Una curiosità: la notte tra il 4 e l’abolito
5 ottobre morì Santa Teresa d’Avila, la cui festa si celebra perciò il 15
ottobre e non il 5.
Giovanni
Zuniga fu tra i migliori della lunga serie di viceré che sedettero sul trono di
Napoli, non sempre positivamente, ed ebbe una sensibilità particolare per la
salute pubblica. Oltre alla menzionata infermeria, sua fu la prammatica che impediva di mescolare il grano
vecchio residuo nelle “fosse del grano” con quello nuovo da conservarvi. Ma
soprattutto è da ricordare la prammatica che impediva a tutti di praticare l’arte
medica senza l’autorizzazione del Collegio dei Medici di Napoli, di Salerno o
di altro Collegio pubblico approvato, e senza licenza rilasciata dal
Protomedico: insomma la tutela dei pazienti.
Proprio nel 1580, l’anno dell’epigrafe,
Zuniga dovette affrontare una grande epidemia di febbre catarrale che giunse fino
al nostro Regno dalla Lombardia. Questa malattia infettiva, detta dai francesi
Coqueluche, in Italia ebbe più di un nome popolare, tra cui il più noto era “Mal
del Castrone”. Persino Giovan Battista Basile, nel suo Cunto de li Cunti, la cita
a mo’ di metafora: “la sgratetudene è
fatto male domesteco, comme a lo male franzese e lo crastone” (da: Lo
serpe, Trattenemiento quinto de la
Jornata seconna). Colpì soprattutto le fasce di età più giovani, tuttavia anche
molti adulti non scamparono alla morte.
Duecento anni dopo, nel 1780, nuovamente a Milano e a Torino vi fu una grande
epidemia di febbre catarrale da cui quasi nessuno restò immune.
A Napoli invece, già cinque anni prima,
nel 1575 si era fatto fronte con successo ad un’altra infezione, sempre
proveniente dal Nord Italia: la peste che, assai virulenta a Milano, fu
chiamata “Peste di San Carlo”, per la dedizione del vescovo di quella città, Carlo
Borromeo, in favore degli infermi. Napoli fu l’unica città d’Italia a scampare
del tutto al contagio grazie ad un’accorta politica sanitaria del viceré Innigo
Lopez (Íñigo López Hurtado de Mendoza, Marchese di Mondejar).
Costui, nel corso della sua
amministrazione, emanò diverse prammatiche in materia di tutela della salute
pubblica.
· Il
divieto di vendere manna adulterata (era prevista la pena di morte!)
riservandone l’approvazione al Protomedico.
· L’obbligo
per tutti gli abitanti “dalla Porta Reale
fino a quella di Chiaja” di pulire e
spazzare le strade ogni giovedì, per mantenere netta la città e garantire la
salubrità dell’aria.
· La
realizzazione di cloache nelle case del borgo di Chiaia, per evitare che gli
abitanti dovessero portare al lido i rifiuti.
· L'imposizione ai trasportatori di pietre di non seminare queste per strada, affinché “non cagionassero fango nel Verno e polvere
la State”.
Ma il suo merito maggiore fu, come detto,
l’avere scongiurato il contagio della peste, cosa assai temibile giacché il
1575 era Anno Giubilare e in tanti andavano e venivano da Roma come pellegrini: i
morti in quella città furono molte migliaia. L’epidemia era partita da Trento e
si era diffusa a Verona e Venezia, poi in Lombardia e nel resto d’Italia. Napoli
ne fu esente grazie all’accortezza nell’igiene, ad un rigoroso controllo delle
persone in entrata e al blocco delle merci provenienti dalle zone infette.
Le due incisioni sono tratte da:
D. A. Parrino, Teatro eroico, e politico de' governi de' Viceré del Regno di Napoli dal tempo del Re Ferdinando il Cattolico fino al presente, Parrino e Mutii, Napoli 1692, volume I, libro secondo, pp. 302 e 318.
Nessun commento:
Posta un commento