25/05/20

I "santini" di Venanzio

Nella chiesa dell’eremo dei Camaldoli a Napoli sono presenti alcuni dipinti, con santi e beati dell’ordine monastico camaldolese, eseguiti nella prima metà del Seicento.

La collocazione di alcuni di essi nelle cappelle piuttosto buie può indurre ad ignorarli. Tali ritratti sono opera di un autore che, per la medesima chiesa, realizzò anche delle scene sacre collocate nel coro (si tratta dei quattro novissimi: Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso) e due ritratti di santi camaldolesi a figura intera, San Bruno Bonifacio di Querfurt e San Pier Damiano, posti alla controfacciata, dove vi è anche l'Ultima Cena opera di Massimo Stanzione. San Pier Damiano fu il primo biografo di San Romualdo, colui che diede avvio alla tradizione camaldolese, avendo scritto nel 1042 la Vita Beati Romualdi.

Ma qui ci soffermiamo sui ritratti a mezzobusto che presentano medesime dimensioni e caratteristiche come, ad esempio, il nome del soggetto in basso. Insomma una collezione di dipinti realizzati come oggi si potrebbe stampare una serie di santini di una stessa categoria di soggetti.
Si tratta di: San Teobaldo eremita, Beato Michele della corona, San Parisio eremita, San Benedetto martire, San Giovanni martire, San Matteo martire, Sant’Isacco martire, tutti monaci camaldolesi.
Di questi quattro martiri, Benedetto da Benevento e Giovanni avevano conosciuto sia San Romualdo (953 ca. – 1027) che San Bruno Bonifacio di Querfurt (974 ca. - 1009). Essi erano partiti come missionari per la Polonia, dove avevano fondato un eremo ed accolto quali novizi due fratelli polacchi: Matteo e Isacco, gli altri due martiri raffigurati. Nel 1003 tutti e quattro, più il cuoco di nome Cristino, furono uccisi da ladri penetrati nell'eremo. Bruno di Querfurt, che terminerà la sua vita col martirio sei anni dopo, ne scrisse nel 1008 la storia: Vita quinque fratrum eremitarum [seu] Vita vel Passio Benedicti et Johannis sociorumque suorum.
Queste opere, per lungo tempo ritenute di Antiveduto Gramatica (1571-1626), grazie ad uno studio degli anni novanta (Lucilla Conigliello, 1995) sono state attribuite al pittore camaldolese Venanzio l’Eremita, che è autore anche di altri dipinti, alcuni dei quali nell’eremo di Camaldoli (Arezzo) e nell’Abbazia di Montecassino.


Le notizie biografiche su Venanzio sono scarse. Probabilmente originario di Subiaco, era un pittore già affermato allorché, nel 1618, entrò in monastero. Resta incerto il nome secolare (forse Francesco Antonio Biffoli) e ignota la sua vita prima di prendere i voti. Soggiornò in alcuni eremi dell’area geografica italiana e anche in Polonia (1624-1633). Nell'eremo di Napoli visse dal 1640 al 1641 e dal 1651 al 1654.

Nel Regno di Napoli vi erano ben otto comunità camaldolesi, sei delle quali del ramo di Monte Corona, una riforma dell’ordine nata nel 1520 cui apparteneva quella napoletana (si veda l'articolo "Una storia camaldolese" in questo blog). 
Avere tredici opere a Napoli di Venanzio l’Eremita, questa misteriosa figura di monaco artista, tra cui la straordinaria serie di sette ritratti a mezzobusto dal crudo realismo, appare un ulteriore elemento di ricchezza storica della città.


Stemma della Congregazione
degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona
(Napoli, pavimento del refettorio dell'eremo).


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