L'Ospedale San Gennaro. |
Entrando nell’Ospedale
San Gennaro ai piedi della collina di Capodimonte, appena varcato il portone, su
entrambi i lati dell’atrio si notano due grandi epigrafi: il “Libro d’oro della
carità”. Si tratta dell’elenco dei più grandi benefattori di questo antico
luogo di cura, con in testa Pietro Antonio d’Aragona di Cardona, Viceré di
Napoli dal 1666 al 1671, primo nome registrato all’anno 1667, seguitando con il
Duca Ettore Carafa nello stesso anno e, terzo, Marco di Lorenzo ascritto all’anno
1669 come Capitano del Popolo.
Marco di Lorenzo era una persona semplice, analfabeta, aveva un’umile “banca di macellaio” aperta in strada della Galitta, oggi via Santa Brigida, facendosi prestare 14 ducati da una facoltosa dama. L’attività ebbe successo e, giorno dopo giorno, Marco accumulava ricchezze e proprietà; negli anni giunse ad avere il controllo delle carni vendute in tutte le macellerie (beccarie) della città, cosa che gli recava consistenti guadagni.
La sua ascesa lo portò
a diventare “Capitano della grascia” in Terra di Lavoro. Con il termine grascia
si indicavano fondamentali generi di consumo (ad esempio la farina e l’olio),
ma talora anche altri beni (ad esempio i cavalli), per i quali vi erano rigide
regole relative al trasporto fuori delle aree di produzione, e verso cui il
corpo dei grascieri esercitava il controllo. Questo ufficio di Capitano della
grascia era stato da lui comprato per ventimila ducati.
Macelleria, attr. ad anonimo napoletano, sec. XVII (Wannenes Art Auctions, Genova). |
La vita di Marco di
Lorenzo si incrociò con la rivolta di Masaniello (1647), ma mantenne le
distanze da essa, con una condotta forse ispirata ad un atteggiamento
volutamente ambiguo, tale da consentirgli di non inimicarsi né il popolo né il
Viceré, tanto che per volere di quest’ultimo tenne in custodia nella propria
casa il fratello di Masaniello, Giovanni, dopo l’uccisione del pescatore e
l’arresto dei suoi congiunti.
Il suo cuore sapeva
essere generoso e soccorreva, con molta discrezione e delicatezza, chi aveva
bisogno. Ad esempio, aiutava le ragazze a maritarsi e ad uscire dalla
condizione di meretricio, provvedendo alla dote e alle spese. Di un nobile cui
aveva prestato 700 scudi, il quale non potendo restituirli evitava di
incrociarlo per strada, stracciò il chirografo in sua presenza, dicendogli di “stimar più, che ogni danaro poter spesso
rivedere il di lui volto”. Analoga liberalità mostrò con un ladro di capre
che si introduceva in uno dei suoi fondi. La sua generosità si espresse anche
in favore del Re, al quale tributò spontanei donativi tra cui, in particolare, 25.000
ducati al fine di armare una galea; in favore del Regio Fisco versò decine di
migliaia di ducati in erogazione liberale.
Morì a causa della gotta il 22 agosto 1669. Sul letto di morte fece bruciare polizze debitorie per un valore di oltre 35.000 ducati e lettere minatorie che pure aveva ricevuto. Esonerò dal pagamento molti affittuari delle sue case e, ad uno di essi che aveva famiglia numerosa, donò 200 ducati per due figlie.
Pubblicata a Napoli da Luc'Antonio Fusco nel 1669. |
Il funerale di Marco di
Lorenzo fu un trionfo, celebrato a cura del Monte de’ Poveri Vergognosi, da lui
tanto beneficato, nella chiesa della Santissima Trinità di Palazzo. Al largo di
Palazzo vi erano all’epoca due chiese con annessi conventi francescani
riformati: uno femminile chiamato la Croce di Palazzo, dove nel 1345 si era
ritirata la Regina Sancia di Maiorca vedova di Re Roberto d’Angiò e, l’altro,
maschile della Trinità di Palazzo, dove nel 1476 era morto San Giacomo della
Marca. Oggi entrambi i conventi non sono più esistenti, per i successivi
rifacimenti ottocenteschi della piazza e degli edifici prospettanti su di essa.
Marco di Lorenzo fu, dunque, sepolto in una cappella da lui fondata all’interno
della Real Chiesa della SS. Trinità di Palazzo, per l’occasione pomposamente addobbata.
Alle esequie era presente il Capitolo del Duomo, “numerosissimo stuolo de’ Poveri di San Gennaro”, due cori della
Cappella Reale, togati e cavalieri che sostenevano la coltre.
Incisione di Paolo Petrini, 1718 (Biblioteca Nazionale di Napoli). |
Sulla facciata e nel
cortile interno del Monte dei Poveri Vergognosi, in via Toledo, furono poi
esposti dieci medaglioni - rappresentanti altrettante opere dell’istituzione - e il
ritratto di Marco di Lorenzo commissionato nientemeno che a Luca Giordano, il
quale riprodusse su tela anche alcuni dei soggetti dei medaglioni. Questa istituzione,
fondata per iniziativa della Congregazione dei Nobili della Casa Professa del
Gesù Nuovo e posta nel 1605 sotto protezione reale, era destinata a sovvenire dieci
categorie di bisognosi, tra cui la principale erano i “poveri vergognosi”: chi
erano costoro? I poveri vergognosi erano aristocratici la cui condizione
economica era a tal punto decaduta da obbligarli a chiedere l’elemosina. Essi
si aggiravano ricoperti da un saio con cappuccio, per evitare l’umiliazione di
essere identificati, da qui la locuzione di “poveri vergognosi”. Secondo il costume
dell’epoca, la condizione sociale impediva loro sia di dedicarsi al lavoro che
di chiedere l’elemosina apertamente. Erano una categoria protetta, che non fu
mai assimilata a quella dei mendicanti, neppure sul piano normativo, ma
beneficiava di forme assistenziali
specifiche, offerte in maniera riservata per non favorire la mancanza di
rispetto verso il ceto nobiliare. Il Palazzo del Monte dei Poveri Vergognosi di via Toledo,
che ha avuto una storia travagliata da più di un rifacimento, oggi è conosciuto
in città soprattutto per avere ospitato fino al 2008 i grandi magazzini La
Rinascente.Struttura di via Vergini.
Il Monte aveva anche un'altra sede, nei pressi della chiesa dei Padri Missionari Vincenziani in via Vergini, edificio tuttora esistente.
Il 19 agosto 1669, pochi giorni prima della morte di Marco di Lorenzo, il notaio Vincenzo Iannoccaro ne redige il testamento: si rivelerà un’incredibile profusione di beneficenza.
Un nipote, acquisito
dal lato della moglie non avendo egli figli, venne costituito erede universale,
ricevendo l’enorme somma di circa 140.000 ducati. Ma l’aspetto più interessante
delle disposizioni testamentarie è costituito da alcuni legati particolari, che
per noi oggi compongono un interessante affresco su una parte fragile della
società dell’epoca.
Luca Giordano - Povera vergognosa, 1670 ca. (Galerie Canesso, Parigi). |
Gli 80.000 ducati destinati
al Monte de’ Poveri Vergognosi erano soggetti a vincoli d’uso:
· 200 ducati l’anno per le vedove,
affinché potessero contrarre un nuovo matrimonio; per comprendere l’importanza
sociale di tale destinazione è necessario fare rifermento alla condizione
precaria delle vedove nel Seicento.
· 1000 ducati l’anno per la liberazione
degli schiavi, per il riscatto di cristiani di Napoli e del Regno di Napoli
rapiti dai cosiddetti barbareschi. Tale evento era non inusuale all’epoca,
tanto che nel Cinquecento erano sorti Ordini religiosi e Confraternite sia per
soccorrere i cristiani sequestrati i quali, per aver salva la vita,
avevano abbandonato la propria fede, che per pagare il riscatto di quelli
provenienti da famiglie povere.
· 200 ducati l’anno per il matrimonio
delle “donne meretrici”. In tal modo,
si offriva la possibilità a tante ragazze povere finite nella prostituzione di
uscire dalla loro condizione, fornendo loro l’indispensabile dote per contrarre
matrimonio.
· 200 ducati l’anno “per aiuto di elemosine à tante povere Donne honorate, commorantino in
questa Città, acciò non offendano Dio benedetto”: questa destinazione è
chiaramente pensata in chiave preventiva, come quello precedente lo era in
funzione di intervento in stato di degrado già conclamato.
· 20 carlini al mese in perpetuo da spendersi
per una “pietanza” settimanale “per servitio de Reverendi PP. della
Santissima Trinità di palazzo”, ossia i frati minori osservanti riformati
che vivevano proprio nel convento annesso alla chiesa del funerale.
· 20 carlini alla settimana in perpetuo “alli Reverendi PP. di Sant’Eframo Nuovo”,
cioè i frati cappuccini, quale “pietanza per
servitio dell’infermi”.
· 30 ducati annui alla Congregazione di Nostra Signora del Rimedio, cui apparteneva Marco di Lorenzo, per “cento libre di cera da bruciare in ossequio” ad essa. L’immagine della Madonna del Rimedio aveva origine in Spagna e, nel monastero dei Padri Trinitari a Valencia, a lei si era raccomandato don Giovanni d’Austria, il quale poi riportò la vittoria nella famosa Battaglia di Lepanto (1571) nel giorno della festa della Madonna del Rimedio (7 ottobre, poi festa della Madonna del Rosario): da quel momento fu detta anche Nostra Signora della Vittoria. Papa Gregorio XIII con breve del 3 settembre 1575 concesse l’indulgenza per i fedeli che avessero visitato la chiesa, in quella giornata di ogni anno, in ringraziamento per la vittoria. Una copia dell’originale immagine spagnola si trovava a Napoli nella chiesa dei Padri Trinitari. Il testamento specifica che in mancanza della suddetta Congregazione, la stessa cifra venisse destinata alla Congregazione del SS. Rosario di Palazzo.
Raccolta di sermoni e invocazioni a Nostra Signora del Rimedio in Valenza; contiene il Breve di Papa Gregorio XIII (pubblicata a Valenza nel 1647). |
· 50 ducati l’anno per la festa e processione del Santissimo della chiesa di Sant’Anna di Palazzo, parrocchia di Marco di Lorenzo.
· 600 ducati all’anno, versati 50 al mese “all’Hospedale di San Pietro e Gennaro”,
attivo fin dal XIII secolo ma, dopo varie vicissitudini, rilanciato nel Seicento proprio grazie al Viceré Don Pedro Antonio Ramon Folch de Cardona e conosciuto come Ospizio dei Poveri dei SS. Pietro
e Gennaro.
L'edizione in italiano, ugualmente pubblicata a Napoli da Egidio Longo nel 1671, due anni dopo la morte di Marco di Lorenzo. |
Volume contenente notizie sull'Ospedale San Gennaro e versi in onore del Viceré, edito da Egidio Longo, Napoli 1671. |
A quest’ultimo ospedale, da cui è partita la nostra storia e del quale Marco di Lorenzo era stato governatore, andò anche il suo feudo del valore di 60.000 scudi: terreni con un bosco nella zona tra Grazzanise e Cancello.
Nonostante l’evidente ascesa economica, Marco di Lorenzo per tutta la vita non abbandonò mai il suo banco di macellaio: finché ne ebbe forza, continuò umilmente a esservi personalmente presente.
Una strada di Napoli, non lontano dalla Stazione Centrale, ancora oggi è a lui intitolata.
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