Andar per banni


Tre itinerari alla scoperta di antiche epigrafi partenopee

Napoli è come un grande archivio, che custodisce intriganti faldoni colmi di meravigliose testimonianze del passato: quasi tremila anni di storia. Un faldone assai voluminoso è quello recante l’etichetta “chiese”, con i suoi oltre 400 fogli, ciascuno dei quali rappresenta un edificio di culto a partire dall’epoca paleocristiana. Altri considerevoli faldoni di questo archivio urbano sono: “palazzi monumentali”, “castelli”, “teatri”, “scavi archeologici”, “catacombe ed ipogei”, “musei”, “guglie”, “edicole votive”, “fontane”, eccetera.
Vi è poi un faldone poco consultato, quasi sconosciuto. Uno di quelli, polverosi e perlopiù ignorati, che giace dimenticato in un angolo dell’archivio. Eppure all’interno conserva innumerevoli, interessanti e singolari documenti, che hanno il potere di metterci immediatamente a contatto con scene della vita quotidiana dei secoli passati. Sono come una macchina del tempo: ti soffermi dinanzi ad essi e... senti voci e squilli di tromba, mentre davanti ai tuoi occhi è tutto un brulicare di gente che commenta, ride, maledice, si nasconde, esprime soddisfazione.
È il faldone “epigrafi”. Quelle antiche lastre di marmo sparse nella città, talora di difficile comprensione a causa della lingua o delle abbreviazioni, che al camminatore attento e curioso offrono sorprendenti spaccati della Napoli di un tempo.
Andiamo alla scoperta di alcune di esse, una piccola parte specifica. Anzitutto non ci occuperemo di epigrafi contemporanee, cioè poste a partire dal ‘900, in ricordo e celebrazione di personaggi ritenuti illustri e di eventi considerati degni di nota (“qui nacque...”, “da questa casa partì...”, eccetera). Per la cronaca, la più recente di queste è stata inaugurata l’8 settembre 2017: una targa commemorativa su Palazzo Pescolanciano, in via Nardones 118, residenza del primo ambasciatore russo nel Regno delle Due Sicilie. I nostri itinerari abbracciano il ‘600 e il ‘700, fermandosi al 1802 allorché fu collocata in città l’ultima epigrafe contenente un atto di natura giuridica. È a queste, in lingua italiana, che rivolgiamo la nostra attenzione, siano gli atti ecclesiastici o civili.


Complessivamente, le epigrafi possono essere distinte in varie categorie sulla base del contenuto. Le più numerose sono quelle di natura religiosa od ecclesiastica: ad esempio con dedicazioni o fondazioni di chiese e monasteri (un meraviglioso esempio di questo genere è quella del 1628 sul portale dell’Annunziata), immunità, indulgenze, opere di carità. Poi ci sono quelle civili: dedicatorie, celebrative, di carattere finanziario, indicanti edifici pubblici o che attestano la promulgazione di banni (editti).
La maggior parte delle epigrafi ancora visibili contenenti esenzioni, immunità, interdizioni, prescrizioni, si trovano nel centro antico (zona dei decumani) e nel centro storico. Qualcuna è presente nei seguenti quartieri: Chiaia, Fuorigrotta, Miano, Vomero; infine altre, divelte dalla loro sede originaria, sono custodite nei sotterranei gotici della Certosa di San Martino.

1° itinerario
Dai Quartieri Spagnoli a piazza San Domenico Maggiore

  • In via Concordia, esattamente all’angolo con vico Colonne a Cariati, c’è la più antica delle epigrafi ancora esistenti in città tra quelle riportanti un banno. Per precisione occorre considerare che quelle di grandi dimensioni esposte nell’atrio di Castel Capuano, che vedremo nel 2° itinerario, sono sì antecedenti di nove anni (1617), ma di altra natura: contengono il tariffario dei servizi giudiziari. 
    L’epigrafe di via Concordia è datata 9 febbraio 1624 e, come la successiva di vico Lungo Gelso, pone limitazioni all’affitto delle case della zona. Il banno delimita l’area interessata dall’interdizione: essa andava dal cosiddetto Giardino di Montecalvario a quello del Principe di Cariati e alla Chiesa della Concordia. Il Giardino di Montecalvario era la zona dove nel 1724 (esattamente un secolo dopo) fu edificato il Teatro Nuovo su progetto di Domenico Antonio Vaccaro. Questo teatro fu distrutto da un incendio il 20 febbraio 1861, sette giorni dopo la presa di Gaeta (13 febbraio) da parte degli invasori sardo-piemontesi: quasi a simboleggiare la devastazione del Regno delle Due Sicilie, costretto con la violenza a perdersi nel Regno d’Italia. Il Palazzo Spinelli di Cariati, realizzato nel ‘500 e poi rimaneggiato nel ‘700, è ben conosciuto quale sede dell’Istituto Pontano al corso Maria Teresa (poi chiamato corso Vittorio Emanuele II dopo la conquista del 1860). La Chiesa di Santa Maria del Carmine alla Concordia, fondata alla metà del ‘500, la si può ammirare a pochi passi dal punto in cui si trova l’epigrafe: nell’omonima piazzetta in cui svetta la sua pregevole facciata settecentesca. Dunque si trattava di un’area piuttosto vasta nella parte alta dei Quartieri Spagnoli nella quale, sotto pena pecuniaria, era fatto divieto, a partire dal giorno 1 maggio 1624, di dare in locazione case a meretrici, persone disoneste e compagnie di soldati. Quest’ultima specificazione è interessante perché i Quartieri Spagnoli sorsero nel ‘500 proprio per accogliere il distaccamento militare spagnolo: nella prima metà del secolo successivo, invece, già si tendeva a ridurne la presenza, tutelando il decoro e l’ordine della zona, dove ancor oggi è possibile riscoprire palazzi gentilizi e chiese monumentali.
  • In vico Lungo del Gelso (all’altezza del civico 109) c’è un’epigrafe datata 21 marzo 1631 che, analogamente a quella di via Concordia, interdice la locazione di case a determinate categorie di persone. Qui si tratta di meretrici, studenti e altre persone discinte, sotto pena di frustate e multa ai proprietari.

  • Scendendo in piazza Carità, troviamo un’epigrafe del 12 luglio 1802, la più recente tra quelle qui considerate. Per scovarla bisogna guardare la facciata della chiesa di S. Liborio alla Carità: sotto il balcone a sinistra la vedremo. Quando è aperto il gazebo del ristorante, risulta parzialmente coperta. In essa è riportato il banno del 30 giugno 1802 con il quale si fa divieto a venditori e calessieri di occupare la piazza, sotto pena di 24 ducati.


  • Da piazza Carità si raggiunge piazza Dante e, da qui, Port’Alba. Sotto l’arco della porta dal lato di piazza Bellini, ci sono due lapidi: l’una datata 19 gennaio 1796 e l’altra che riporta solo l’anno 1797. Quest’ultima rammenta interventi alla porta, mentre la prima, il banno, è la più interessante, poiché contiene il divieto di ingombrare con mercanzie il passaggio della porta, sotto pena di 24 ducati, lasciandolo libero per il transito “de’ cittadini, delle carrozze, e delle altre vetture”.

  • Usciti da Port’Alba, in piazza Bellini c’è una delle epigrafi più interessanti, che riporta quanto deciso il 30 giugno 1743 e confermato due anni dopo, il 22 Giugno 1745, con l’aggiunta sottostante. Anzitutto essa descrive le misure della piazza, utilizzando il “palmo”: antica unità di misura del Regno delle Due Sicilie, in uso a Napoli; un palmo corrispondeva a poco più di 0,26 m. Poi tutela la proprietà della stessa (possedimento del locale monastero), però fissando il diritto di pubblico passaggio e il divieto di apportarvi modifiche, ingombrarla o deturparla.

·   Lasciata piazza Bellini, dirigiamoci nella non distante piazza San Domenico Maggiore dove, guardando alla destra dell’abside dell’omonima chiesa, troviamo una grande epigrafe con un banno del 7 luglio 1764, reso pubblico solo il 2 luglio 1765. Partiamo proprio da questa parte finale dell’epigrafe, per fare conoscenza con un personaggio legato alla pubblicazione (proprio nel senso di portare a pubblica conoscenza) dei banni: il trombetta. Chi era costui? Il trombetta (chiamato anche precone) era il pubblico banditore che doveva andare in giro ad affiggere decreti, sentenze, prammatiche, editti, ecc., ma anche a far conoscere al pubblico il loro contenuto, annunciandolo “a suono di tromba alta e intelligibili voce” come questa epigrafe, appunto, attesta. L’epigrafe di piazza San Domenico riporta anche il nome del trombetta della Gran Corte della Vicaria: Domenico Zito. Lo incontreremo nuovamente nell’epigrafe di piazzetta Teodoro Monticelli (2° itinerario), segno che otto anni più tardi era ancora in servizio. Per quanto concerne il contenuto del banno, esso era teso a mettere ordine nella piazza, vietando di giocare a carte, palle, pastore, farinole (giochi oggi probabilmente sconosciuti) e ogni sorta di gioco, fare chiasso, depositare immondizia, occupare lo spazio con cambiamoneta o per porre in affitto sedie e calessi, tutto sotto la pena di 6 ducati e carcerazione.


2° itinerario
Dai Vergini al Rettifilo


  • Questo secondo itinerario parte dal borgo dei Vergini, precisamente dall’ex Ospedale di Santa Maria della Misericordia contiguo all’omonima chiesa. Attualmente l’edificio è un condominio senza portiere, pertanto occorre pazientare per trovare l’ingresso aperto. Entrando nel chiostro, al centro del quale c’è ancora l’antico pozzo, subito a sinistra si trova un banno datato 23 dicembre 1774 il quale, in esecuzione di disposizioni reali anteriori di venti giorni, esclude il beneficio dell’immunità alle abitazioni “che hanno l’entrata interiore a la sudetta chiesa”.

  • Portandosi in via Foria e discendendo via Carbonara, c’è una via intitolata al Cardinale Seripando che costeggia sulla destra la meravigliosa chiesa di San Giovanni a Carbonara. Qui troviamo un banno del 6 febbraio 1735 che privava dell’immunità ecclesiastica “il piano di questo Real Monastero di S Gio a Carbonara dalla publica piazza sino alla Scalinata Claustrale di detto Monastero insieme colle case in detto Piano esistentino da oggi in appresso”.

  • Ritornando su via Carbonara e voltando a destra all’altezza di Castel Capuano, si giunge al monumentale portale del castello. Appena entrati, si vedono sulla sinistra le più grandi epigrafi di tutta la città. Si tratta di un enorme tariffario, datato 16 settembre 1617, che riguarda le incombenze giudiziarie civili e penali (queste ultime chiamate “criminali”). Ci si trova veramente di tutto e, a leggere il testo, si ha uno spaccato dell’attività giudiziaria del tempo.  Così, tanto per fare qualche esempio: per la copia della confessione dell’inquisito, in alcune specifiche circostanze, non si doveva pagare “cosa alcuna”; gli scrivani che andavano “extra la città e per lo regno” per verbalizzare le dichiarazioni degli inquisiti, avevano diritto alle spese per la cavalcatura, il mangiare e il bere; per la citazione dei testimoni “dentro la città, e suo distretto, grana cinque, et extra la città, grana dieci”. E, naturalmente,  ci sono anche le tariffe per il trombetta, personaggio che abbiamo conosciuto nel 1° itinerario e che ritroveremo più avanti. Questo tariffario, infine, consente anche di conoscere alcune monete in uso al tempo: grana, carlini, tarì. Nel Regno delle Due Sicilie, dove il seicentesco tarì fu reintrodotto nel 1788, 1 tarì valeva 2 carlini ed 1 carlino valeva 10 grana.




  • Da Castel Capuano è facile raggiungere via Tribunali e, da qui, percorrere quasi per intero via San Gregorio Armeno, superando via San Biagio dei Librai, fino a girare a sinistra in vico Figurari. In questa strada si possono scoprire due interessanti epigrafi, entrambe sul lato destro.
La prima che si incontra dichiara che l’area al di là del secondo appartamento delle case dell’abate Tomaso Minerba è stata venduta, “senza patto di ricomprare”, al Sacro Monte della Pietà per la somma di 400 ducati e che “né esso né i suoi eredi e successori in infinitum” vi potranno edificare, come previsto nell’atto del notaio Lionardo Marinelli del 30 aprile 1731. L’epigrafe, anche se abbastanza ben conservata e leggibile, è purtroppo deturpata dal passaggio di cavi elettrici, che potevano tranquillamente essere deviati al di sopra o al di sotto di essa, se si fosse compreso e rispettato il valore storico di questo reperto.

Proseguendo lungo vico Figurari fin quasi all’incrocio con via Grande Archivio, sulla sommità di un portale ad arco si trova un’epigrafe dal cui testo si evince che lì vi era una taverna. L’iscrizione, piuttosto danneggiata ai lati,  riporta quanto sentenziato dal Cardinale Pignatelli, Arcivescovo di Napoli, il 14 giugno 1709: la taverna stessa e, con una descrizione precisa, “il suo cortile scoverto (...) suo contenuto e vacuo della cantina seu cellaro che siegue dentro di essa taverna sino al muro di fa(...)rica a mano dritta nel ingresso di detto cellaro (...)ncluso anco il vacuo situato tra la prima e seconda porta di detto muro” non godono di immunità ecclesiastica che, invece, opera nel contiguo monastero dei Santi Severino e Sossio (oggi sede dell’Archivio di Stato).


  • Da vico Figurari occorre ritornare sui propri passi in via San Gregorio Armeno, per imboccare poi via San Biagio dei Librai. Qui, si prende vico Santa Luciella, l’antico Vicus Vestorianus, che costeggia la chiesa e il monastero di san Gregorio Armeno (in passato detto anche “di san Ligorio”). Di fronte e in alto, praticamente sul fianco del monastero, c’è un’epigrafe senza data, ma il rifermento al re Filippo (più d’uno tra il 1554 e il 1665) la fa collocare tra la seconda metà del ‘500 e la prima del ‘600. Una datazione più precisa è forse possibile qualora il “Regio Consigliero Francesco Rocco, commissario delle cause del venerabile monasterio di S. Ligorio”, che impartì l’ordine, sia quello nato nel 1605 e che fu investito della suddetta carica il 17 Settembre 1657, poi deceduto nel 1676 (cfr. Lorenzo Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Tomo III, Napoli 1788, pp. 112-113). La sua monumentale tomba, opera di Lorenzo Vaccaro, si trova nella chiesa della Pietà dei Turchini, in via Medina. Se l’identificazione è corretta, il banno è databile tra il 17 settembre 1657 (Francesco Rocco diventa Regio Consigliere) e il 17 Settembre 1665 (fine del regno di Filippo IV): esattamente otto anni! Il banno prescrive che intorno al monastero non possano abitare persone disoneste, né alcuno “di qualsivoglia stato o conditione” vi possa giocare “a qualsivoglia gioco sotto pena di 25 onze di oro”. Dunque si trattava di un provvedimento a tutela della monache e a decoro del luogo.

Monumento funebre di Francesco Rocco
(chiesa della Pietà dei Turchini)

·      Percorrendo tutto vico santa Luciella, si ritorna in via San Biagio dei Librai e, a breve distanza sulla destra, si trova la chiesa di San Nicola a Nilo. Guardando ai fianchi della doppia scala della chiesa, tra i finestroni e le due botteghe, si vedono due epigrafi che hanno il medesimo testo replicato per entrambi i lati. Si tratta di un decreto della Curia Arcivescovile, del 1° febbraio 1706, con cui si dichiara che proprio la scala e le due botteghe laterali non godono dell’immunità ecclesiastica. Interessante notare che i due locali vengono indicati come “botteche seu bassi laterali”: antica testimonianza dell’uso della parola “basso” (in lingua napoletana: ‘o vascio).

  • Dalla chiesa di San Nicola a Nilo, proseguendo su  via San Biagio dei Librai, si imbocca –all’altezza della famosa statua del Nilo-  via Giovanni Paladino e, da qui, svoltando a destra nei pressi della chiesa di Donnaromita, l’omonimo vico. Alla sinistra del portale del monastero di Donnaromita, lungo il muro della chiesa, c’è un’epigrafe senza data che riporta il banno del “sig.r Consegliero Andrea Provenzale comissario delegato dell Monasterio de S.ta Maria D. Romita”, con il quale si fa divieto di giocare nelle due strade intorno al monastero, sotto pena “de ducati sei et carceratione arbitrario”. Il riferimento ad Andrea Provenzale potrebbe consentire un’approssimativa datazione dell’epigrafe, qualora dovesse trattarsi di quell’Andrea Provenzale nato a Napoli verso il 1579, che ottenne la toga di Regio Consigliere nel 1626 e morì il 10 marzo 1645 (cfr. Lorenzo Giustiniani, op. cit., pp. 87-88; Giangiuseppe Origlia, Istoria dello studio di Napoli, vol. II, Napoli 1765, p. 131). In tal caso, il banno risalirebbe ad un periodo compreso tra il 1626 ed una data anteriore al 1645 considerando che, dopo essere stato Regio Consigliere, il Provenzale fu nominato Presidente della Regia Camera della Sommaria.

  • Da vico Donnaromita si raggiunge in breve tempo via Mezzocannone (passando per piazzetta Nilo oppure per via Paladino e via Orilia) e quindi la sua traversa, via De Marinis, che conduce all’Università Orientale. Non è molto agevole trovare l’epigrafe di questa tappa dell’itinerario: ponendosi con le spalle all’Orientale, occorre guardare -sulla sinistra del largo Girolamo Giusso- il palazzo alla base della scalinata che fa angolo con via San Giovanni Maggiore Pignatelli e qui, tra la finestra ed il balcone al primo piano, accanto ad un lampione, la si può individuare. La lapide, in non buone condizioni conservative e pertanto di difficile leggibilità, riporta la proibizione del 31 maggio 1651 di edificare nel largo o di imporvi servitù, essendo stato realizzato “ad ornamento della città”.

  • Da largo Giusso ci si porta nel vicinissimo largo Banchi Nuovi e, quindi, a piazzetta Teodoro Monticelli. Di fronte a Palazzo Penne c’è un’epigrafe con un banno del 19 luglio 1773, con il quale si ordina “a tutte e qualsivogliano Persone di qualunque grado o condizione si siano, che dal giorno della pubblicazione del presente Banno non ardiscano, ne presumano di occupare, ne impedire, ne tampoco imbrattare ne alli Sediari tenervi le Sedie avanti il largo della Casa Palaziata dell'illustre Principe di Palmerici”. Insomma, il provvedimento era finalizzato a mettere un po’ di ordine nel luogo, essendovi il palazzo del citato principe e il “Venerabile Collegio di S. Demetrio della Congregazione Sommasca”, sotto pena di carcerazione. Il banno si conclude con la previsione di un procedimento in contumacia, qualora le persone gravate non si fossero presentate alla Gran Corte della Vicaria entro sei giorni dalla pubblicazione. Questa avvenne il 24 luglio 1773 da parte del trombetta Domenico Zito: quello stesso di piazza San Domenico Maggiore (1° itinerario), naturalmente “a suono Tromba ad alta ed intelligibile voce”.

  • Accanto a Palazzo Penne si discendono le scale del pendino Santa Barbara, al termine del quale si svolta a destra in via Sedile di Porto, che sfocia in piazzetta di Porto. Si è giunti così all’ultima tappa di questo 2° itinerario: l’epigrafe contenente il banno del 17 luglio 1753, regnante Carlo di Borbone “rex utriusque siciliae”. Con esso si fa divieto di ingombrare e apportare innovazioni, sotto la pena di 200 ducati e altro, “nell'atrio suolo e spiazzo avanti la casa e bottega del M.co D. Donato Acampora”. Il testo è complessivamente di non facile comprensione, essendo infarcito di abbreviazioni.

Poi basta voltarsi ed ecco che il Rettifilo e la fermata della metropolitana Università riportano immediatamente al XXI secolo, facendo lasciare alle spalle i banni, il trombetta, le grana, le immunità e il vociare di centinaia e centinaia di anni or sono.


3° itinerario
In giro per la città (Chiaia, Fuorigrotta, Vomero, Miano)

Questo terzo ed ultimo itinerario non può essere percorso a piedi, poiché raccoglie le restanti testimonianze sparse per la città, a notevole distanza l'una dall'altra.

  • Si parte da via Chiatamone, quartiere Chiaia. Qui troviamo, ai piedi della  rampa Pizzofalcone, un’epigrafe contenente un’ordinanza del Tribunale datata 1 settembre 1731. Con essa si fa divieto di intromettersi, senza licenza del medesimo Tribunale, nella distribuzione dell’acqua ferrata, la cui sorgente è proprio lì accanto, o comunque di “estorcere denaro alcuno, benché minimo”. Tale provvedimento era a tutela del diritto della popolazione ad avvalersi della famosa acqua “sperimentata giovevolissima”. La pena per i contravventori era severa: 50 ducati e 6 mesi di carcere.


  • Da Chiaia si raggiunge Fuorigrotta e, precisamente, piazza Pilastri, dove c’è un’epigrafe, in cattive condizioni di conservazione, del 23 luglio 1789, racchiusa in un’imponente cornice di piperno, con un’iscrizione “fatta incidere in marmo" dal “tribunale generale della pubblica salute”. Essa riporta l’ordine del Re Ferdinando IV, che si intuisce teso alla prevenzione della diffusione della malaria. Infatti in quel punto era istituito un posto di controllo sanitario, presso il quale si dovevano fermare tutti i “carri e le some che fanno ritorno dalla maturazione de canapi e lini seguita nel lago di Agnano”. La pena per i contravventori prevedeva, per la prima volta, “due mesi di carcere” e, per la seconda volta, “la perdita delli carri bovi e some”: insomma prima l’ammonizione con una breve detenzione e, in caso di recidiva, la confisca della merce e del mezzo di trasporto.

  • Ad alcune centinaia di metri di distanza, oltrepassando un cancello sulla destra della chiesa del Buon Pastore in via dei Legionari, vi è un’interessante epigrafe che si richiama ad una prammatica del 22 marzo 1727. Essa tutelava i passanti dagli abusi dei soldati che sorvegliavano le “sbarre”, cioè i luoghi dove si riscuotevano i dazi, ed ordinava a questi ultimi di restare raggruppati in quei pressi e di attendere ciascuno ai propri doveri, senza gironzolare per la strada importunando i viandanti, magari con la scusa di reprimere il contrabbando. La violazione di tale consegna, avvertiva l’epigrafe, sarebbe stata sanzionata allo stesso modo di qualsiasi violenza commessa da privati cittadini in luogo pubblico: dunque nessuna impunità per i militari. Era la stessa prammatica ad imporre l’affissione di tali epitaffi nei luoghi delle sbarre. Essa fu rinnovata il 21 febbraio 1735, dal viceré Manuel Luiz d'Orléans y de Watteville, Conte di Charny, quando oramai, superato il viceregno, Napoli era tornata ad essere capitale di uno Stato del tutto indipendente con Re Carlo di Borbone. Fu questi che nominò luogotenente lo Charny, fino al suo ritorno dal viaggio verso la Sicilia. Insomma cambiava lo Stato, ma il principio che la legge è uguale per tutti restava un punto fermo nelle Due Sicilie.


  • Lasciato il quartiere Fuorigrotta, si sale verso il Vomero per via Caravaggio e, giunti all’incrocio con via Manzoni, si vede la settecentesca Villa Patrizi, dalle belle linee barocche col portale di gusto sanfeliciano. Imboccata, dunque, via Manzoni, subito a destra si apre una viuzza chiamata via vicinale Torre Cervati che scende lungo il fianco della collina. L’area un tempo rappresentava, insieme con la villa, l’estesa proprietà del marchese e giudice Pietro Patrizi protagonista della storia che un’epigrafe coeva racconta. Per trovare l’iscrizione bisogna inoltrarsi un poco per questa via vicinale Torre Cervati, che prende il nome da un’antica torre di epoca medievale, dei marchesi Cervati, andata distrutta. La stradina era percorsa in passato anche dal famoso “muro finanziere”: l’ultima murazione di Napoli risalente all’800. Dopo un breve tratto, sulla sinistra si nota un rudere in tufo: uno degli accessi alla tenuta, tutto ciò che resta dell’antica masseria sostituita nel tempo da costruzioni e aree di parcheggio. Il Patrizi, come ricorda l’epigrafe, possedeva una cospicua massaria di circa moggia cento trenta (130 moggi erano pari a quasi 44 ettari) a Posillipo, in questa zona detta San Giovanni dove sorgeva un monastero (poi diventato masseria e attualmente destinato ad abitazione), circondata per protezione da mura e siepi, nonché provvista di porte chiudibili. A partire dall’arco con l’epigrafe la strada si chiama oggi cupa San Giovanni. Il Marchese denunciò alla Delegazione del Regio Ufficio di Montiero Maggiore, il fatto che alcuni cacciatori, avendo scavalcato dette mura e siepi, avessero danneggiato la proprietà, domandando opportuni provvedimenti per evitare il ripetersi di tali atti. Il Montiero Maggiore aveva competenza in materia di caccia, come il rilascio delle licenze, la riscossione dei diritti dell’erario, la vigilanza di campagne e paludi (una sorta di guardiacaccia), ma soprattutto la giurisdizione sui reati di caccia. Interessante il fatto che il Montiero Maggiore esercitasse anche l’avvocatura della caccia: in un’epoca in cui vi era grande e diffuso interesse per l’attività venatoria, secondo una sensibilità non paragonabile a quella dei tempi attuali in cui prevale la contestazione verso di essa, l’ufficio era deputato alla difesa dei diritti di caccia. Ricevuta la denuncia del marchese Patrizi, dunque, l’Ufficio del Montiero Maggiore accertò anzitutto la reale esistenza della recinzione. Ciò constatato (“informati che realmente la divisata massaria sia all’intvtto chivsa”),  venne promulgato, in data 12 maggio 1779, il banno (uno dei firmatari, Laurentius Paternò, lo ritroveremo nell’epigrafe del Vomero) con il quale si faceva divieto a chiunque di entrare nella masseria qualora i portoni fossero chiusi e, ugualmente, di scavalcare le mura e danneggiare le siepi per intromettersi nella stessa. Per i contravventori, non solo cacciatori ma “qvalsivogliano persone di qvalvnqve stato grado e condizione, era stabilita la seguente pena: carcerazione; perdita dello schioppo e di tutti gli arnesi da caccia, se trattavasi di cacciatori; una multa salata di 50 ducati, “per ogni volta, da versarsi al Regio Fisco. Inoltre i guardiani della masseria, cioè il personale di custodia alle dipendenze del proprietario, ricevettero facoltà di farsi aiutare da chiunque per bloccare gli intrusi, per poi darne rapidamente notizia alla Delegazione. Infine, per pubblica informazione e applicazione della sanzione, senza che alcuno potesse opporne la mancata conoscenza, si ordinò l’affissione del banno a Posillipo e Fuorigrotta. La copia di Fuorigrotta è probabilmente andata perduta, mentre l’epigrafe di via Torre Cervati resta testimone del tempo in cui la zona, oggi fortemente urbanizzata, era un’area verdissima e ricca di selvaggina.

  • Riprendendo la via del Vomero, attraverso corso Europa, ci si reca alla cappella  della Reale Arciconfraternita del SS. Rosario al Vomero Vecchio, fondata nel 1570. La chiesa, che ha anche un ipogeo e un piccolo museo, è contigua alla chiesa di Santa Maria della Libera, in via Belvedere, ed è aperta solo la domenica mattina. Nella sacrestia della cappella, alla parete sinistra appena entrati, c’è un’epigrafe riportante un banno del 23 dicembre 1779. Con esso si dichiarano esenti da dazio tutti i “generi nati, e raccolti nelli territory contenuti ne’ distretti delle parrocchie di s. maria dell’avvocata, s. maria della neve, s. maria dell’arenella s. strato di posillipo, e s. erasmo”. La violazione avrebbe comportato una sanzione salatissima: 1.000 ducati! L’abbreviazione F° R° sta per “fisco regio”: cioè i ducati sarebbero confluiti nelle casse statali. Questa epigrafe è interessante anche perché è una testimonianza delle parrocchie esistenti, nella seconda metà del ‘700, in un’ampia zona della città. Nel fissare i limiti di applicabilità dell’esenzione, il banno fa espressamente riferimento alla relazione fatta dall’attuario il quale, ricevuti dalla Regia Camera l’ordine e i decreti, sottoscrive il banno stesso e lo pubblica; di costui è riportato in calce il nome: Antonio D’Arena. Chi era l’attuario nel XVIII secolo? Si trattava di un funzionario pubblico togato con vari compiti, tra cui ricevere, registrare e conservare gli atti (da qui il nome) del Tribunale. Dunque non aveva assolutamente niente a che vedere con l’attuale figura professionale dell’attuario, ma era più affine a quella del notaio e del cancelliere. L’altra persona indicata nell’epigrafe, Laurentius Paternò, era Marchese di Casanova, Regio Consigliere di S. Chiara e del Supremo Magistrato del Commercio, Presidente della Regia Camera della Sommaria (cfr. Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, Tomo III, Napoli 1804, p. 33).

  • Dal Vomero si raggiunge il quartiere Miano. All’angolo tra via nuova Epitaffio (il nome della strada si riferisce proprio all’epigrafe) e via san Francesco d’Assisi c’è un’edicola votiva dedicata alla Madonna del Rosario, risalente al ‘600. Nell’edicola è inserita frontalmente un’iscrizione, che riporta un banno risalente al Re Filippo ed emanato da Carlo de Tapia marchese di Belmonte: elemento, quest’ultimo, che consente una sua datazione. Carlo de Tapia, a partire dal 1625, fu contemporaneamente Reggente di Cancelleria e Consigliere del Collaterale (cfr. Lorenzo Giustiniani, op. cit., pp. 199-200). L’incarico di Consigliere del Collaterale, in particolare, gli fu affidato nel 1624 (cfr. Gaetana Intorcia, Magistrature del regno di Napoli. Analisi prosopografica, Jovene, Napoli 1987, p. 385). Poiché entrambi gli incarichi sono citati nell’epigrafe, essa è databile tra il 1624 e il 1644 (anno della morte), regnante Filippo III di Napoli (e IV di Spagna). Carlo de Tapia (1565 - 17/1/1644) ricoprì diverse cariche: Giudice della Vicaria Criminale (cioè il tribunale penale di Napoli), consigliere del Consiglio Collaterale (l’organo di governo della città), Reggente della Cancelleria Regia e altro ancora. Egli fu anche autore di opere, perlopiù di natura giuridica, tra cui spiccano il corpus di leggi “Ius regni neapolitani ex constitutionibus, capitulis, usibus, pragmaticis, ecc.” e il “Trattato dell'abbondanza”. Via Ponte di Tappia a Napoli, zona in cui egli nacque, fin dai tempi del padre, Egidio Tapia, prese il nome da questa famiglia. Carlo è sepolto nella chiesa di San Giacomo degli Spagnoli, in piazza Municipio. Il banno vieta “di giocare a maglio, e palle nella piazza avanti la chiesa di n. s. dell’arco del casale di miano (...) in tutti li giorni dell’anno, e in particolare della ssa. pasqa di resuretione, e pentecoste”. Il divieto era teso a garantire il decoro del luogo e la quiete dei fedeli che si recavano al santuario della Madonna dell’Arco di Miano (da non confondere con quello di Sant’Anastasia), anche perché nei dintorni della chiesa si svolgeva, nei giorni di Pasqua, la festa dell’Architiello (o Archetiello). Il santuario, officiato prima dai domenicani e poi dai francescani, esiste ancora, mentre la festa è andata perduta. Qualche anno dopo l'emanazione di quel banno, scoppierà, per ben altri motivi, la rivolta di Masaniello (1647).


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Tabella riassuntiva in ordine cronologico
Le date tra parentesi sono presunte


Legenda dello stato di conservazione
*  scarsamente leggibile e/o fortemente deteriorata
** leggibile con difficoltà e/o deteriorata
*** leggibile e in discreto stato di conservazione
**** facilmente leggibile e in buono stato di conservazione
***** perfettamente leggibile ed in ottimo stato di conservazione




Anno

Sito
Conservazione
1617
Castel Capuano
***
1624
Via Concordia
**
(1624-1644)
Via dell’Epitaffio
***
(1626-1645)
Vico Donnaromita
****
1631
Vico Lungo del Gelso
***
1651
Largo Giusso
*
(1657-1665)
Vico Santa Luciella
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1706 (due unità)
Via San Biagio dei Librai
*** e ****
1709
Vico Figurari
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1727
Via delle Legioni
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1731, 30 aprile
Vico Figurari
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1731, 1 settembre
Via Chiatamone
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1735
Via Cardinale Seripando
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1743 e 1745
Piazza Bellini
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1753
Piazzetta di Porto
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1764 e 1765
Piazza San Domenico Maggiore
***
1773
Piazzetta Teodoro Monticelli
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1774
Ex Ospedale S. Maria della Misericordia
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1779, 12 maggio
Via vicinale Torre Cervati
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1779, 23 dicembre
Congrega del SS. Rosario al Vomero
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1789
Piazza Pilastri
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1796
Port’Alba
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1802
Piazza Carità
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