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Vico della Serpe. |
La zona tra Castel Capuano e via Tribunali, prima dell’edificazione di quest’ultimo, era a carattere paludoso ed una leggenda narrava che in quella plaga melmosa si aggirasse un serpente (o drago) che divorava ogni creatura dopo averla avvelenata con gli occhi ed il fiato pestifero.
Il nobile Gismondo (1), nella Napoli bizantina del IX secolo, decise di attraversare la palude per recarsi in pellegrinaggio alla chiesa di San Pietro ad Aram, al fine di venerare l’apostolo Pietro. Questi vi aveva pregato e battezzato i primi cristiani napoletani: Santa Candida e Sant’Aspreno primo vescovo di Napoli. La sua fede coraggiosa fu premiata: la terribile serpe non si vide. Anzi la Madonna, apparsa in sogno a Gismondo, gli annunciò la morte della letale bestia e la richiesta di costruire in quel luogo una chiesa a lei dedicata, cosa che egli fece nell'anno successivo 833: Santa Maria ad Agnone. Questa leggenda rende ragione dei nomi di due stradine a ridosso di via Tribunali: vico Santa Maria ad Agnone (2) e vico della Serpe, che custodiscono un piccolo tesoro. Nel Basso Medioevo quella zona, che era rimasta al di fuori delle mura greche della città, fu urbanizzata e vi sorse un quartiere: il quartiere angioino. Ancora oggi vi sono resti dell’insediamento, studiati da un laboratorio dell’Università Orientale di Napoli, che ivi ha posto la sede del Centro Interdipartimentale di Servizi di Archeologia.
La chiesa di Santa Maria ad Agnone era parte di un monastero di monache che professavano la regola orientale di San Basilio e, successivamente, quella di San Benedetto. Nel XVI secolo diventò convento degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio e, nell’Ottocento, carcere femminile: struttura in cui Salvatore di Giacomo ambientò la reclusione di Assunta Spina. La chiesa di Santa Maria ad Agnone fu distrutta a causa di uno dei tanti bombardamenti anglo-americani sulla città nel 1943, mentre sopravvisse la struttura dell’ex monastero e poi carcere femminile, oggi destinata a civili abitazioni.
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L'ex carcere femminile di Santa Maria ad Agnone |
Quando Lord Henry Lennox visitò Napoli nel 1862, si recò anche in quel penitenziario come in altri (ad esempio: Nisida, Salerno), autorizzato dal prefetto Alfonso La Marmora: il generale piemontese che, in tal veste, incarnava la militarizzazione repressiva di Napoli. L’8 maggio 1863 Lennox fece un resoconto alla Camera dei Comuni
(3) di ciò che vide in quei giorni, denunciando il clima di oppressione che regnava nelle ex Due Sicilie ad opera del Regno d’Italia (si veda l’articolo su questo blog “
L’altra resistenza”). Nella visita alle carceri, Lennox era accompagnato da un deputato locale. Nonostante la visita fosse autorizzata –e di diritto per il deputato- nei giorni seguenti furono entrambi oggetto di attacchi sui giornali allineati, perché accusati di complottare contro il Governo di Torino. La denuncia di Lennox riguardava soprattutto la carcerazione senza interrogatorio, senza processo, di un’infinità di persone per motivi politici. A Santa Maria ad Agnone, ad esempio, si imbatté in donne rinchiuse per "simpatie politiche". Tra queste, tre sorelle che si chiamavano Francesca, Carolina e Raffaella Avitabile: recluse da ventidue mesi perché sospettate di aver appeso alla finestra una bandiera delle Due Sicilie. La conclusione del discorso di Lord Lennox è commovente, soprattutto considerando le sue pregresse posizioni politiche di sostenitore di Vittorio Emanuele: “
I shall welcome with grateful joy any reforms, by whomsoever brought about, which will restore to that fair land—fairest among the fair—the possession of happiness and liberty, and does not leave her any longer a prey to the worst of despotisms and the most maddening of sufferings”
(4).
La repressione del dissenso verso l’occupazione presentata e giustificata come unità d’Italia fu feroce e contemplò anche la deportazione: sia quella verso le aree interne al Regno d’Italia (5), sia quella progettata verso territori extraeuropei.
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Visconti Venosta. |
Il 27 novembre 1872 il Ministro plenipotenziario d’Italia in Olanda, Giuseppe Bertinatti, ha un movimentato incontro con il locale Ministro per le Colonie, Van de Putte, di cui egli stesso riferisce al Ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta, in una lettera inviata da L’Aja il giorno seguente: “Ebbi ieri una vivacissima discussione, benché nei termini i più cortesi, col signor Fransen Van de Putte, Ministro delle Colonie” (6). Qual era il motivo di tale agitazione? L’Olanda lamentava le manovre dell’Italia in Estremo Oriente per acquisire un territorio nel Borneo – non lungi dai possedimenti olandesi- da destinare a campo di deportazione, principalmente per risolvere in via definitiva il problema del cosiddetto brigantaggio, cioè di coloro che - dopo oltre dieci anni - ancora resistevano all’annessione. Ufficialmente la resistenza era considerata problema di ordine pubblico: un’emergenza criminale, risolvibile in via definitiva solo allontanando i protagonisti dai loro affetti. Queste le parole del Ministro degli esteri Visconti Venosta al Ministro plenipotenziario a Londra Carlo Cadorna che definiscono, non senza un tono di spregio, problema e soluzione: “Ma abbiamo in alcune parti d'Italia alcune piaghe sociali triste retaggio del passato. Queste piaghe vogliamo guarirle a qualunque costo - è per noi una questione di dovere e di onore nazionale (…) porre un termine alle condizioni anormali della Romagna, del Napoletano, della Sicilia (…) Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un'altra pena, quella della deportazione, tantopiù che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti dall'idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo” (7). Si notino le parole stigmatizzanti “triste retaggio del passato”, “impressionabili popolazioni del Mezzogiorno”, “briganti” e la presenza della Romagna (ex Stato Pontificio) tra le aree da colpire, territorio che però riceverà un futuro economico-sociale ben diverso dalle ex Due Sicilie.
L’idea di una soluzione finale non era nuova e, per quanto riguardava il Borneo, l’Italia l’aveva dunque già avanzata presso il governo inglese. In una lettera del 9 agosto 1872 il Segretario generale agli esteri Isacco Artom lamenta all’Incaricato d’affari a Londra Maffei il fatto che ancora non sia giunta una risposta dalle autorità inglesi, mentre si era consapevoli dell’importanza di conoscere “ciò che è possibile di fare senza crearsi delle difficoltà colla Gran Bretagna” (8).
Insomma, sarebbe stato praticamente necessario il beneplacito di Inghilterra e Olanda. Scrive il Ministro Visconti Venosta al Console a Singapore, Carlo Stefano Festa, il 3 marzo 1873: “Come Ella saprà, gli sguardi nostri si erano da ultimo rivolti su alcune isole al Nord del Borneo, e su un territorio al nord-ovest di quel continente, che i rapporti del Commendatore Racchia designavano appropriati allo scopo e che il Sultano di Bruni attuale possessore sarebbe stato disposto a cedere all'Italia; si sperava inoltre che l'Inghilterra e l'Olanda padrone di altri territori in quelle regioni non avrebbero fatto opposizione allo stabilimento progettato. Non è mestieri che io segnali a V. S. come questa ultima circostanza fosse essenziale per noi. Egli è infatti evidente che, date le condizioni attuali, una colonia nascente in paesi così lontani ed inospitali non solo non potrebbe solidamente attecchire a dispetto dei più importanti vicini, ma neppure quasi il potrebbe senza il loro concorso volonteroso" (9). Ma i Paesi Bassi vedevano nel progetto italiano un attentato alla sicurezza e alla stabilità dei propri domini nell’area “essendo impossibile impedire che, di tanto in tanto, ci fossero evasioni di deportati” (10).
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Lettera dell'8 novembre 1872. |
Nell’archivio di stato olandese a L’Aja sono conservati atti
(11) relativi alla questione di tale campo di concentramento; i documenti sostanzialmente compongono un carteggio (1872-1873) formatosi attraverso la Legazione olandese a Londra intorno all'intenzione dell'Italia. Se il progetto si fosse realizzato, sia l’Olanda che il Regno Unito si sarebbero trovati in quella loro area coloniale degli scomodi vicini: mantennero, dunque, una posizione contraria. Anzi, l’Italia apparve sprovveduta nel pretendere la collaborazione dei due paesi, che da quei territori potevano trarre immense ricchezze in termini di risorse naturali. Essi, piuttosto, scorgevano nell’eventuale presenza italiana un improvvido pericolo di instabilità nella regione. Non sembra estraneo un velo di ironia allorché si dice che il Regno d’Italia potrebbe all’uopo farsi concedere un’isola delle Filippine dalla Spagna, visti i legami di parentela. L’arcipelago, infatti, all’epoca era colonia spagnola e il Re di Spagna era – e lo fu per appena un paio di anni - Amedeo I figlio di Vittorio Emanuele II di Savoia. Oltre al rammarico per il generale sfruttamento di quelle comunità asiatiche, occorre osservare con amarezza come il nostro popolo, in fin dei conti, si sia salvato da questa deportazione in Estremo Oriente solo per non disturbare, appunto, un’altra oppressione.
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Louis Gericke. |
Il sentimento olandese di insofferenza politica per l’iniziativa del Regno d’Italia verso una colonia penale nel Borneo è evidente, ad esempio, in una lettera del Ministro degli esteri Gericke all’ambasciatore a Londra van Bylandt inviata dall’Aja e datata 8 novembre 1872: “
Mais il n’y aurait pas d’inconvénient cependent à ce que l’attention du public en Angleterre fut évéillée à l’égard des conséquences nuisibles et déplorables qu’une colonie pénale Italienne entrainerait inévitablement pour ces contrées”
(12).
La questione si chiuse definitivamente agli inizi del 1873. Il consenso di Inghilterra e Olanda non arrivò mai, anzi il progetto fu osteggiato persino dalla Regina Sofia d’Olanda in persona, come riferisce Bertinatti a Visconti Venosta in una lettera del 22 dicembre 1872: “Mi venne affermato da chi può saperlo che questa Augusta Sovrana non vede per nulla di buon occhio un nostro stabilimento penitenziario in un punto qualunque che rasenti i possedimenti neerlandesi nell'India, o che sia tale da dare opportunità ai nostri convicts d'evadersi dal loro per riparare nel nostro territorio. Benché l'opposizione della Regina non sia sempre accompagnata da quella del Re, e che talvolta, mi dicono, succeda appunto il contrario, non si può tuttavia non tener conto di questa opposizione recisa ed individuale, attesa la sua notevole influenza sopra coloro che la circondano, che non sono pochi, né son destituiti, a loro vicenda, di influenza politica. La regnante Sofia, degna di nome come di fatto di questo appellativo, che ha regolari relazioni epistolari cogli statisti inglesi, per molti de’ quali ha speciali simpatie, non può, qual buona olandese che è non approvare in massima l'indirizzo da essi dato alla loro politica coloniale” (13).
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Charles van Bylandt. |
Ipotizzo che davanti alle resistenze dei due paesi, apparendo chiaro che la soluzione dovesse essere un’altra, si andò consolidando il disegno al ribasso per il Meridione, che significativamente non riguardò invece la Romagna che pure - come abbiamo visto - era considerata area problematica per l’ordine pubblico da investire del progetto di deportazione. Una sponda cui approdare fu, dunque, colta nel pensiero di Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare, che si andava sviluppando proprio allora (14) offrendo la cornice (pseudo) scientifica dell’inferiorità dei meridionali e conseguentemente, in ambito educativo, della stringente necessità di controllo e repressione. Nei suoi studi criminologici, Lombroso si opponeva alla cosiddetta scuola classica che ascriveva un’importanza fondamentale alla libertà dell’individuo nel determinarsi, nello scegliere tra azioni criminose e non criminose. Egli, invece, focalizzava l’attenzione su caratteristiche ereditarie - l’atavismo criminale - che facevano del delinquente un involuto a stadi primitivi della razza umana e perciò ineluttabilmente spinto, destinato, a delinquere: un delinquente nato. Il segno chiaro e decisivo di questa degenerazione biologica in senso criminogeno, Lombroso ritenne di scorgerlo durante l’autopsia del calabrese Giuseppe Villella, nella “fossetta occipitale mediana”: correva l’anno 1870. In realtà quella dell’autopsia a Villella fu parte della costruzione mediatica del personaggio Lombroso, dal momento che il cosiddetto “brigante” morì nel 1864 e il medico veronese non effettuò l’autopsia, ma solo ebbe a disposizione il cranio (15). L’interpretazione lombrosiana del fenomeno criminale è stata smentita, gli stessi suoi risultati sono basati su criteri metodologici distanti dai moderni approcci e inficiati da approssimazione, grossolanità, assenza o errori nei gruppi di controllo. Tuttavia ci fu un influsso delle idee lombrosiane non solo sulla scienza criminologica per decenni, ma anche sulla politica e sull’immaginario collettivo sino ad oggi.
Lombroso espresse i suoi interessi e studi su tale materia in un’Italia che si era appena costituita –con i mezzi che attualmente la ricerca storica sta evidenziando nella loro crudeltà – e che vanamente cercava un collante per unire il presente e un supporto per distruggere il passato. Un poderoso studio
(16) sulla produzione scritta di alcuni autori dell’Italia postunitaria, fino all’avvento del fascismo, esplora la complessità di uno stato appena fondato, alla ricerca di una nazione inesistente: quella italiana. Tra gli autori riletti c’è anche Lombroso, che sembra l’epigone della paura del diverso, della maledizione oscura dell’altro perduto nella sua integrità e decostruito nei suoi dettagli che, da essere umano moderno, lo ricostruiscono primitivo, folle, criminale.
Nell’Italia forzatamente unita e pertanto del tutto disunita, l’idea del meridionale delinquente per nascita, sovversivo per arretratezza, biologicamente irredimibile, offriva una sponda forte alla necessità di creare una colonia in cui deportarlo: non più geografica e oltremare ma mentale e inscritta nella coscienza individuale. Non potendo portare i meridionali nel Borneo, si sarebbe però potuto portare il Borneo nei meridionali. La strada per la colonizzazione mentale, come progetto pedagogico di controllo politico e come progetto politico di controllo pedagogico, era aperta. L’annientamento dell’identità attraverso la mortificazione dell’autostima e del patrimonio storico-culturale (17), la promozione del consenso - irrazionale perché autoafflittivo - col sistema postunitario potevano rappresentare una deportazione simbolica ma altrettanto – e forse più – efficace: un’alienazione fondata sulla paura di essere se stessi perché troppo incapaci, troppo cattivi, troppo inferiori. Senza contare che l’emigrazione garantita dallo studiato disfacimento dell’economia locale, assicurava comunque una buona quota di deportazione fisica (18).
Erano trascorsi mille anni dai tempi di Gismondo che aveva sconfitto la perniciosa serpe: un nuovo veleno veniva introdotto nelle vene dei napoletani e di tutti i meridionali. A mordere furono chiamate la povertà pressante e la scuola normalizzante (19). A questa fu affidato il compito di insegnare a non avere rimpianti per l’indipendenza perduta, a silenziare memoria e identità preunitarie: il silenzio dei deportati.
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