Piccole storie crescono


Fontana della Maruzza (Napoli, sec. XVI)


In questa pagina di Identitario-blog ci sono alcune storie che ho preparato attingendo a documenti e giornali d’epoca (1). Sono fatti che rivelano aspetti del primo periodo di occupazione della nostra terra. Storie che aprono uno spiraglio su bugie, violenze e opportunismi con cui fu rivestito il tempo in cui perdemmo l’indipendenza e iniziò il declino programmato.

Quelle che ho scelto e ordinato cronologicamente non è detto che siano le storie più importanti: semplicemente mi sembrano avere un valore esemplare. L’obiettivo è educativo: decolonizzare le nostre menti, aiutandole a rendersi conto dell’abitudine indottaci a pensarla in modo da assecondare l’interesse dei conquistatori di ieri e di oggi.

Chi lo riterrà opportuno, potrà liberamente utilizzare e diffondere questi racconti, purché lo scopo sia solo l’amore gratuito per la nostra gente: dobbiamo prendere per mano con pazienza e tenerezza le comunità e accompagnarle su una strada bella e difficile.

Auguro a tutte le piccole storie, chiunque le racconti con verità e nonviolenza, di crescere come semi che portano frutti di liberazione.

Antonio Lombardi

  1. Ultime ore (4 settembre 1860)
  2. A nostra insaputa (12 luglio 1860)
  3. Quanti me ne puoi mandare? (12 settembre 1860)
  4. Il dono nazionale (14, 23, 27, 28 ottobre 1860)
  5. Un imbroglio annunciato (15 ottobre 1860)
  6. La causa persa (19 dicembre 1860)
  7. Che fretta c’era? (29 dicembre 1860)
  8. Capriole giuridiche (18 febbraio 1861)
  9. Una scomoda mozione (1 marzo 1861)
  10. La sorpresa di Pasqua (31 marzo 1861)
  11. Segretissimo (11 novembre 1861)
  12. Pulizia culturale (19 dicembre 1861)
  13. Il regalo di Natale (21 dicembre 1861)
  14. Grandi eventi (18 gennaio 1862)
  15. Trattato come un napoletano (2 aprile 1862)
  16. Diritto internazionale (8 maggio 1863)
  17. Da settembre a dicembre: una tabella riassuntiva.

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(1) Molte altre storie, naturalmente, sono reperibili su questo blog consultando l'indice.


1860


ULTIME ORE

Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, Regina delle Due Sicilie, è la seconda moglie di Ferdinando II. Il 4 settembre 1860 si trova a Gaeta e, in un dispaccio telegrafico (2) delle ore 7,20 pomeridiane indirizzato a Re Francesco II che è a Napoli, segnala il maggiore Cosenza dei Carabinieri a cavallo, di cui ha stima e che si trova a Bari.

L’ufficiale interprete addetto al telegrafo di Palazzo Reale, Francesco Marini, annota il messaggio in cifre sulla colonna destra di un foglio e la sua decodifica su quella sinistra. Si tratta di una serie di numeri e punti: 119. 1129. 226. eccetera, sopra i quali segna a matita i gruppi di lettere che essi figurano.

Francesco, nella risposta telegrafata alle 3,45 antimeridiane del 5 settembre, le fa sapere che non sarà possibile coinvolgere Cosenza, perché non è ancora giunto a Napoli. Pertanto, chiederà a Quandel se vuole seguirlo. Aggiunge che le truppe di Calabria sono disfatte e «si attende qui Garibaldi».

Il capitano Ludovico Quandel, costantemente fedele a Francesco II, fu tra i protagonisti della resistenza a Gaeta e, dopo la capitolazione, rifiutò sempre di entrare nell’Esercito Italiano.

Ancora il 5 settembre da Gaeta, Maria Teresa, alle ore 8 del mattino, fa telegrafare un nuovo dispaccio indirizzato a Francesco. Il medesimo ufficiale interprete addetto al telegrafo di Palazzo Reale annota il messaggio e la sua decifrazione allo stesso modo del precedente. Sono ore drammatiche per Napoli e per tutte le Due Sicilie. Mancano due giorni all’occupazione della capitale e la Regina si informa sugli ultimi sviluppi.

«Io preferirei Cosenza, che potrebbe chiamarsi subito telegraficamente. (…) Che cosa ha fatto la truppa di Salerno ed Avellino e chi comandava la truppa che si è disfatta?»

La risposta di Francesco II viene telegrafata alle 7 pomeridiane. La minuta contiene il messaggio da cifrare, operazione che sarà compiuta all’atto della trasmissione.

«Rispondo con ritardo: ma con esattezza. Dopo i vergognosi rovesci di Calabria, ove comandava Vial figlio, non essendo possibile battere il nemico e mantenere la capitale, dovendosi quindi abbandonare Napoli, io riconcentro tutte le truppe sulla linea del Volturno, e spedisco le migliori con Luigino e Alfonso Caserta. (…) Io non so se verrò a Gaeta, o a Capua pel momento e poi costà.»

Il generale Giambattista Vial era il figlio di Pietro Vial già Maresciallo di Campo delle Due Sicilie. Assolutamente diverso dal vecchio genitore, era incapace e indolente. Purtroppo, aveva il comando supremo delle forze in Calabria che Francesco II nel suo dispaccio del 5 settembre ore 3,45 dettaglia: «20 battaglioni, 4 squadre e 4 batterie sono disfatte». Per errori grossolani o per slealtà Vial e altri generali, come ad esempio Domenico Gallotti e Fileno Briganti, causarono la sconfitta nonostante la smisurata superiorità nel numero, nell’equipaggiamento, nelle risorse.

Questo è lo scenario denso di amarezza degli ultimi giorni di Napoli libera che, a partire dal 7 settembre, sarà occupata da Garibaldi. Ma in tale buio brilla la risolutezza che Francesco II mostra in quei dispacci cifrati; egli analizza, ipotizza, sceglie e, soprattutto, non fugge dalla capitale, come certi libri di stampo coloniale hanno propagandato. Piuttosto, progetta di recarsi o direttamente a Gaeta per partecipare alla resistenza o, dapprima, sul Volturno per anticipare l’interposizione. È evidente che siamo in presenza di un Sovrano coraggioso e determinato che, momento per momento, decide il da farsi con concreto realismo mentre, intorno a lui, corrotti e vigliacchi già si sono consegnati agli avidi invasori.
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(2) I dispacci citati e da cui sono tratte le foto, si trovano presso l’Archivio di Stato di Napoli, Fondo Archivio Borbone, Corrispondenza di Francesco II con diversi, b. 1148, cc. 349-353.


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A NOSTRA INSAPUTA 

Lord John Russel fu Segretario di Stato agli Affari Esteri del Regno Unito dal 1859 al 1865: quindi ricoprì un ruolo di primo piano nella politica britannica durante l’occupazione delle ex Due Sicilie. Il 12 luglio del 1860 – a due mesi dallo sbarco di Garibaldi a Marsala - alla Camera dei Comuni di Londra ci fu un’interrogazione promossa da Sir Robert Peel alla quale Russel dovette rispondere (3).

Lord John Russel (1861) e Sir Robert Peel (1860).
Peel, che era all’opposizione, chiedeva la documentazione sulla posizione del Governo relativa all’annessione della Sicilia al Piemonte. Egli motivava tale interessamento col fatto che la questione della Sicilia riguardava, direttamente e immediatamente, l’Inghilterra sia dal punto di vista commerciale che da quello marittimo e politico (4). Le parole di Peel, pur contenendo ammirazione per Garibaldi, esplicitamente sono severe verso Vittorio Emanuele II.

Quando Garibaldi – domanda - lascia che il popolo gridi “Viva Vittorio Emanuele Re di Sicilia”, può essere considerato Re di Sicilia colui che solo l’altro giorno vendeva come pecore al macello o schiavi al mercato i suoi sudditi più devoti? Prima che ciò accada – sottolinea Peel - dovrebbe risuonare dalle valli della Savoia una voce di avvertimento al popolo siciliano, su che cosa la sua famiglia è stata capace di fare nei secoli ai sudditi appena acquisiti (5). La conclusione di Peel è l’auspicio che il governo non ratifichi l’annessione della Sicilia alla Sardegna (6).


Nel dibattito intervennero alcuni dei presenti e la risposta del Segretario di Stato agli Affari Esteri, Russel, fu articolata. Tra le tante affermazioni, è interessante rilevare che ebbe premura di contestare quella che, evidentemente, era una voce diffusa: Garibaldi non è un filibustiere («a filibuster»). Ma ad essere sconcertante è una dichiarazione del Ministro sul rapporto tra la spedizione in Sicilia, Vittorio Emanuele e il Governo britannico. Egli, infatti, afferma che il Re di Sardegna non aveva questo proposito e che il Governo britannico aveva ricevuto in tal senso una comunicazione. Quanto è accaduto – esclama - è stato a nostra insaputa! (7)

Che dire? Il determinante sostegno finanziario e militare del Regno Unito alla cancellazione del Regno delle Due Sicilie è cosa nota e apertamente ammessa con tanto di gratitudine già all'epoca (8); non meno conosciute sono le menzogne sulla spedizione di Garibaldi e il ruolo del Regno di Sardegna. È perciò inquietante e ridicola quella espressione: “a nostra insaputa”.

Ieri come oggi, la deriva economica e sociale della nostra gente non avviene mai a insaputa di chi vi ha interesse. Le bugie che ci hanno raccontato e ci raccontano sono tante – è vero - ma nel momento in cui veniamo a conoscenza della verità non possiamo più giustificarci se la rifiutiamo.

Il destino del nostro territorio si costruisce con le decisioni che prendiamo, si determina con le nostre scelte: è nelle nostre mani non in quelle degli altri. Dopo oltre centosessanta anni di annessione forzata, abbiamo la responsabilità di non collaborare più col sistema che ci sprofonda nell’emarginazione.



(3) Il testo integrale degli interventi può essere letto in: House of Commons, Hansard, vol. 159, cc. 1776-1806.

(4) «The question of Sicily directly and immediately concerns England, both commercially and in a, maritime and political point of view».

(5) «When Garibaldi allows the people to cry out “Long live Victor Emmanuel, King of Sicily,” I ask, can this be the same king who only the other day sold like sheep in the shambles, or slaves in the market-place, so many thousands of his most devoted subjects? Before this man is taken for a King of Sicily a warning voice should ring from the valleys of Savoy to teach the people of Sicily, before it is too late, what he who sold the liberties and interests of his Savoyese subjects—a race devoted for generations, for centuries to his family, and the rock and mainstay of his inheritance—is capable of doing towards newly acquired subjects».

(6) «I can only hope, as I said before, that Her Majesty's Government will not sanction the union of that island with the Crown of Sardinia».

(7)  «What happened lately took place without our knowledge».

(8) Si veda più avanti: Il dono nazionale.


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QUANTI ME NE PUOI MANDARE?

Il 12 settembre 1860 Vittorio Emanuele scrive una lettera a Garibaldi che da appena cinque giorni ha occupato Napoli. Cinque giorni sono sufficienti per scoprire le carte e per cominciare ad arraffare tutto. Infatti, è ugualmente del 12 settembre il Decreto dittatoriale n. 33 con il quale vengono confiscati tutti i beni della Casa Reale e persino dei familiari di Francesco II.
 Nella lettera si legge la tragica richiesta di Vittorio Emanuele a Garibaldi di uomini e mezzi per le sue guerre: «quante e quali delle vecchie truppe napolitane io posso disporre per l’Italia settentrionale e quanto materiale da guerra potrebbe mandarmi con quelle». I napolitani devono subito essere sbattuti al fronte al Nord per combattere guerre che neppure gli appartengono: quanti me ne puoi mandare? Ripetiamolo: sono passati appena cinque giorni dall'occupazione di Napoli; denaro e carne da macello sono le sole cose che veramente contano per i conquistatori.


Questo documento fu pubblicato per la prima volta nel 1911 da Giacomo Emilio Curatulo, medico e docente universitario di Marsala, senatore del Regno d’Italia dal 1934 al 1943. Curatulo era talmente affascinato dalla figura di Garibaldi che non solo si dedicò alla ricerca di cimeli garibaldini, ma arrivò a chiamare il figlio “Pietro Guglielmo Garibaldi”.


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IL DONO NAZIONALE

The I. L. N. - 3 novembre 1860
The Illustrated London News
” è stata l’antesignana assoluta delle riviste illustrate, il cui primo numero risale al 14 maggio 1842. Pubblicata come settimanale fino al 1971 e poi progressivamente con una frequenza ridotta, ha definitivamente cessato di esistere nel 2003. Essa pubblicava articoli, sovente illustrati, con notizie dal mondo, soprattutto su scienze naturali e progresso tecnologico, arte, cultura, eventi politici con particolare attenzione alla famiglia reale inglese.

Nel numero 1058 del 3 novembre 1860, la rivista dà ampio rilievo alla notizia dell’ingresso a Napoli di volontari britannici al seguito di Garibaldi, avvenuto domenica 14 ottobre, con due grandi illustrazioni e un articolo dal titolo: “L’arrivo e l’accoglienza dei garibaldini britannici a Napoli”.

La prima illustrazione rappresenta l’arrivo a Napoli delle navi “Emperor” e “Melazzo” con a bordo volontari britannici per Garibaldi. L’articolo, precisando che trattavasi di circa 650 persone, si prodiga nel racconto di un’entusiastica accoglienza. Accompagnato da musica e ghirlande di fiori da parte della folla, il corteo dei volontari si dirige verso Largo di Palazzo, dove viene salutato dal generale Türr, per poi proseguire lungo via Toledo con tanto di banda, bandiera inglese, “God Save the Queen”, acclamazioni dalle finestre e mazzolini di fiori, con dame e gentiluomini a stringere la mano dei garibaldini britannici «to express to them the gratitude of Italy». La gratitudine dell’Italia! Sulle ceneri della nostra libertà, per l'ennesima volta mortificata in quella domenica di ottobre.

L’articolo è, sostanzialmente, un mero susseguirsi di interessate descrizioni dell’entusiasmo locale, condito di emozioni dei garibaldini britannici che vengono scarrozzati su e giù per la città tra sorrisi e musica: un panegirico che non riveste eccessiva importanza, se non per la testimonianza del ruolo considerevole che la stampa inglese dell’epoca riconobbe al contributo britannico per l’invasione del Regno delle Due Sicilie. Questo è il punto, ed è fondamentale perché è un’ulteriore ratifica di quanto sia fittizio e volutamente ingannatore il racconto di un’epopea tutta “italiana”, che invece altro non fu che uno dei tanti violenti intrighi internazionali. Quella volta ad essere colpito fu il nostro Regno, come spesso ancor oggi si riscontra in numerose operazioni nel mondo.

Il 23 ottobre 1860 Giuseppe Garibaldi scrisse al Consolato britannico di Napoli: «Riconoscente alla potente e generosa simpatia degl’inglesi, io, Dittatore, credo una ben debole retribuzione a tanti benefizi da loro ricevuti a favore della bella causa italiana il decretare: non solo si concede il permesso d'un tempio sul territorio di questa capitale ad uomini che adorano lo stesso Dio degli Italiani, ma si pregano gli stessi ad accettare come Dono Nazionale il ristretto spazio necessario all'opera pia cui lo vogliono destinare».

Fu così costruita la chiesa anglicana di via San Pasquale a Chiaia che, dunque, di fatto rammenta il ruolo decisivo avuto dal Regno Unito nella fine del Regno delle Due Sicilie. Per di più, nella lettera gli inglesi vengono “pregati” di accettare il “dono nazionale”. Espressioni che si commentano da sé: Sempronio prega Tizio di accettare per ricompensa un bene appartenente a quel Caio che Tizio stesso ha contribuito a distruggere.
L’epigrafe posta sulla facciata della chiesa ricorda l’avvenimento «a grata memoria di Giuseppe Garibaldi».

In una lettera a Vittorio Emanuele (scritta in francese, elemento significativo sull’identità dei nostri invasori) datata 27 ottobre 1860 Cavour, dopo aver sottolineato l’utilità della legione ungherese, scrive: “Sarà di altrettanto forte vantaggio mettere in linea la legione inglese. Anzitutto perché sono eccellenti soldati, poi perché la loro presenza produrrebbe un buon effetto sui nostri soldati, infine perché ciò agirebbe potentemente sull’opinione pubblica in Inghilterra. Bisognerebbe metterli agli ordini di La Marmora, ben conosciuto dagli Inglesi”.

Il giorno dopo, 28 ottobre 1860, Cavour manda un dispaccio a Farini, a quel tempo Ministro dell’Interno nel Regno di Sardegna ma messosi al seguito di Vittorio Emanuele II in marcia verso Napoli. È ugualmente in lingua francese e testimonia la considerazione che Camillo Benso ha della volontà dell’Inghilterra. Riporta due voleri di Londra sulla grossa partita che si va giocando nel Regno delle Due Sicilie:

-     Il Governo Inglese insiste perché il Re vada a Napoli e vi stabilisca un regolare governo”;

-  Il Governo Inglese consiglia di non bombardare Gaeta, dove si trova la Regina e tutta la famiglia Reale, ma di fare un regolare assedio”.

    “Insiste” e “consiglia”: due verbi, due ordini, due obbedienze. E, infatti, entrambi gli eventi si verificheranno. Questo documento fu pubblicato in una raccolta nel 1952 e, dunque, in piena Repubblica Italiana: qualcuno ha mai trovato in un testo scolastico un accenno all’atteggiamento ossequioso di Cavour e dei Savoia all’Inghilterra o sul ruolo determinante che essa ebbe nella conquista armata del Regno delle Due Sicilie?


        Il 9 aprile 2025 nel suo discorso al Parlamento italiano, riunito in seduta congiunta alla Camera, Re Carlo III del Regno Unito ha detto: «E un’altra impresa di cui la Gran Bretagna è orgogliosa di avere fatto parte, riguarda il sostegno che il nostro paese diede all’unificazione dell’Italia. Quando Garibaldi sbarcò vicino a Marsala, in Sicilia, nel maggio del 1860, erano di vedetta due navi da guerra della Royal Navy». Parole definitive.

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UN IMBROGLIO ANNUNCIATO

Il 15 ottobre 1860, sei giorni prima del plebiscito del 21 ottobre, un decreto di Garibaldi anticipa il risultato dello stesso. Viene pubblicato negli “Atti officiali” il giorno 17 e l’imbroglio è talmente sfacciato e beffardo per la popolazione delle Due Sicilie che, in calce al decreto, viene stampata una nota la quale annuncia che il plebiscito si farà lo stesso, nonostante i giochi siano già chiusi.

Osserviamo alcune cose:

1) Garibaldi scrive che le Due Sicilie “mi elessero liberamente a Dittatore”. Un’invasione armata con autoproclamazione a dittatore è spacciata per libera elezione.
2) Scrive ancora che le Due Sicilie “fanno parte integrante dell'Italia una ed indivisibile”. La guerra era ancora in corso, l’Italia in quel momento non esisteva come entità statale, il plebiscito non era stato celebrato.
3) Nella nota si dice che “tutto indica che ad una immensa maggioranza uscirà dall’urna il voto della unificazione italiana”. Già sapevano il risultato.

Le regole per lo svolgimento del plebiscito erano state fissate l’8 ottobre 1860 con un decreto a firma del pro-dittatore Giorgio Pallavicino: “Si troveranno nei luoghi, destinati alla votazione, su di un apposito banco tre urne, una vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col sì, e nell’altra quelli del no, perché ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota” (art. 4). Il risultato sarebbe poi stato pubblicamente annunziato in piazza (art. 7).

Insomma una farsa con il risultato già scritto, senza alcuna garanzia per la libera espressione del voto, similmente a quelle consultazioni elettorali che oggi condanniamo in tutto il mondo.

La rivista settimanale francese “L’Illustration, journal universel” il 10 novembre 1860, nel numero 924 a pagina 324, dedica due immagini al plebiscito del 21 ottobre Una mostra gli elettori che si recano al voto, mentre l’altra mostra il seggio allestito all’interno dell’Università: il salone del Real Museo Mineralogico, ancora oggi accessibile. Da notare i due contenitori, uno con la scritta SI e l’altro con la scritta NO, e la presenza all’interno del seggio di scritte propagandistiche: come le iniziali VE (Vittorio Emanuele) e GG (Giuseppe Garibaldi) e “Viva l’unità d’Italia”.


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LA CAUSA PERSA

Il 19 dicembre del 1860, durante l’assedio di Gaeta, Francesco II autorizza la vendita di due navi, al fine di utilizzare il ricavato per i bisogni degli assediati: la “Sannita” e la “Saetta”.
Il 23 gennaio 1861 il conte de la Tour, mandatario di Re Francesco II, vende ad Auguste Serre, banchiere di Parigi, la Sannita e, all’armatore di Marsiglia Camille Caune, la Saetta, entrambe allora ancorate nel porto di Tolone.
Le Sémaphore de Marseille del 10/11/ 1861.
Ma il console Castellinard, agendo a nome e per conto del governo italiano, si rivolge al Tribunale del Commercio di Marsiglia affinché venga dichiarata nulla la vendita, poiché Francesco II il 23 gennaio 1861 non era più Re a Napoli e, dunque, quei beni risultavano di proprietà dello Stato italiano. Insomma, Vittorio Emanuele pretendeva dagli acquirenti la restituzione delle due navi o il corrispettivo in denaro.
Diciamo anzitutto che le due navi non erano di gran valore; la Sannita era una fregata fuori uso e in riparazione, mentre la Saetta era un semplice yacht da diporto. Questionare sulla proprietà di queste due imbarcazioni, già solo per l’entità dei beni, ci offre un quadro della meschinità italiana contro il nostro Re Francesco.
La questione, evidentemente, era non solo commerciale ma anzitutto politica e fu seguita con passione dall’opinione pubblica. Il quotidiano ”Le Sémaphore de Marseille”, che pubblicava notizie commerciali, marittime, industriali e giudiziarie, dette rilievo all’avvenimento e segnalò la gran folla partecipante alle udienze. Le Sémaphore, stampato dal 1827 al 1944, pubblicò in prima pagina, il giorno 10 novembre, il lungo intervento in aula del difensore degli acquirenti (era il famoso avvocato Berryer) e, a seguire, la replica di parte italiana.
Il 12 novembre 1861 il quotidiano diffuse per intero la sentenza del Tribunale, il cui collegio era composta da tre giudici: Gimmig, presidente; Rabateau e Reymonet giudici a latere.
Dal punto di vista politico era in gioco la faccia del governo italiano e di Vittorio Emanuele II come Re d’Italia; sul piano commerciale si trattava semplicemente della validità o meno della vendita di due imbarcazioni. Ovviamente l’aspetto politico tenne banco nella passione suscitata da questo avvenimento, peraltro veramente misero sul piano della dignità dei nostri colonizzatori.
Questi contavano sul fatto che, essendosi già celebrato il plebiscito nel mese di ottobre 1860, Francesco II  a loro dire  a gennaio del 1861 (epoca della vendita) oramai non era più Re delle Due Sicilie e i beni appartenevano all’Italia (che in realtà fino al 17 marzo 1861 ufficialmente non esisteva ancora).
Quella dei beni duosiciliani è una squallida vicenda, che appena cinque giorni dopo l’invasione di Napoli era già stata “affrontata”. Infatti, il 12 settembre 1860 l’oro della Tesoreria dello Stato e i beni personali di Re Francesco furono requisiti e dichiarati beni dello Stato sabaudo, con Decreto dittatoriale n. 33 del 12 settembre 1860: «Decreto che dichiara beni nazionali i beni della Casa reale, quelli riservati alla sovrana disposizione, quelli de’ maggiorati reali, quelli dell'Ordine Costantiniano, ed i beni donati da reintegrare allo Stato».
Sconfessare o confermare quella tesi, da parte di un tribunale europeo e nel momento in cui il continente guardava con interesse e qualche preoccupazione a ciò che avveniva nelle Due Sicilie, significava ben più che perdere per sempre o recuperare due beni sostanzialmente modesti. Si trattava soprattutto di attentare al castello di carte messo in piedi per dare una parvenza di legittimità a un’aggressione indicibile, il cui vero intento era di natura predatoria.
Ritaglio da: Le Sémaphore de Marseille del 12/11/1861, p. 2.

Come andò a finire?
Il Tribunale Commerciale di Marsiglia emise la sentenza l’11 novembre 1861. La motivazione è articolata, ma spiccano sostanzialmente due cose:
«lorsque les ventes ont été faites, S. M. François II soutenait le siège de Gaete; que si elle avait quitté sa capitale, elle était encore sur son territoire, luttant pour le maintien de ses droits et dans le plein exercice de son pouvoir»;
«elle avait auprès d’elle ses ministres, les ambassadeurs de presque toutes les puissances de l’Europe; que toutes reconnaissaient encore François II pour roi; que le gouvernement français, tout en n’étant plus représenté auprès de lui, le traitait en roi et ne reconnaissait dans ses Etats, aucune autre souveraineté que la sienne».
Cioè, scrive il Tribunale, all’epoca della vendita Francesco II si trovava a Gaeta ed aveva sì lasciato la Capitale, ma era ancora sul suo territorio, lottando per mantenere i propri diritti e nel pieno esercizio del suo potere. Inoltre, egli aveva con sé i propri ministri, gli ambasciatori di quasi tutte le potenze d’Europa e, ancorché il Governo francese non avesse un suo rappresentante presso di lui, lo trattava come Re e non riconosceva alcuna altra sovranità che la sua.
Un colpo durissimo all’immagine del Regno d’Italia, autoproclamatosi tale nemmeno otto mesi prima.
 
L’istanza fu rigettata e il governo italiano condannato a pagare le spese.
Quel procedimento conferma come Francesco II abbia sempre agito in piena legittimità, anche in questa piccola circostanza, mentre il cosiddetto Risorgimento si coprì di ridicolo con le sue meschinerie: era proprio una causa persa.

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CHE FRETTA C’ERA?


Il 29 dicembre 1860 il Luogotenente Generale del Re nelle provincie napoletane, cioè il capo locale del regime coloniale, emanò un singolare decreto. Per comprenderne meglio la portata, occorre rammentare che a Napoli l’arte della lavorazione dei metalli preziosi vantava un’illustre ed antica tradizione, tanto che tra Seicento e Settecento i maestri argentieri napoletani producevano oltre i due terzi delle opere vendute in Europa. Sin dal Medioevo questa arte aveva raggiunto un altissimo livello: qui nacque la prima corporazione al mondo degli orafi, anche a garanzia del materiale adoperato.

La Corporazione degli Orefici ebbe un proprio statuto dai tempi di Carlo II d’Angiò, poi riformato dalla Regina Giovanna I il 2 gennaio 1380. Questo interessante documento, coi suoi ventotto articoli, organizza e controlla la lavorazione di oro e argento, costituendo una garanzia per artigiani e compratori. Il testo, proveniente da un manoscritto, fu pubblicato nel 1893 da Angelo Broccoli, direttore di “Archivio Storico Campano” (n. 2, pp. 410-418).
Nell’Ottocento vi era una consolidata consapevolezza, nel nostro Regno delle Due Sicilie, della necessaria qualità dei metalli utilizzati, della grande tradizione locale di tale arte e, specularmente, dell’indispensabile attenzione da porre ai manufatti provenienti dall’estero (e il Regno di Sardegna era estero, non dimentichiamolo). Tant’è vero che furono istituite «officine di garentia per i lavori di oro e di argento», sotto la vigilanza della zecca del Regno, e venne fissato un preciso disciplinare per quei metalli (“Legge sulla fabbricazione della materia di oro e d’argento, e sullo stabilimento di officine di garantia per le medesime” del 17 dicembre 1808, n° 242); fu poi fatto divieto al Banco delle Due Sicilie, con Decreto 8 dicembre 1833 n° 1886, di accettare in pegno «lavori esteri di oro e di argento se manchino del bollo di garentia». Complessivamente i vari provvedimenti ottocenteschi in materia testimoniano l’attenzione riservata ad un ambito da trattare con prudenza, ad un settore produttivo importante, alla tutela degli acquirenti e dei maestri artigiani del Regno.

Giungiamo al 1860; la capitale è occupata dagli invasori il 7 settembre e, dopo nemmeno quattro mesi arriva il decreto del 29 dicembre che autorizza la circolazione nel meridione dei lavori in oro, argento e argento dorato, con qualsiasi bollo del centro-nord accorpato, in attesa di un sistema uniforme di garanzia.
Il Decreto Luogotenenziale del 29/12/1860.
Riflettiamo un momento. Non stiamo parlando di beni di prima necessità, come il pane quotidiano o la lana per l’inverno appena iniziato, ma di oro, argento, gioielli, oggetti d’arte preziosi; dunque, che fretta c’era? Prima di consentirne la libera circolazione non sarebbe stato più opportuno aspettare la realizzazione di un sistema di controllo unico e allineato agli standard più elevati (probabilmente proprio quelli del Regno delle Due Sicilie)? Era così urgente questo provvedimento, da essere assunto a tre mesi e mezzo dall’occupazione, a guerra ancora in corso, senza una disciplina valida uniformemente per tutti gli stati preunitari, col rischio di distruggere un settore produttivo che era uno dei nostri fiori all’occhiello?
Sì, nella logica del colonizzatore certamente era urgente. Perché bisognava aprire subito, immediatamente, l’ampio mercato meridionale alla paccottiglia che le era estranea. Possiamo immaginare il danno per i compratori e, soprattutto, le ricadute sugli artigiani locali senza più una tutela specifica. Così oggi, sul piano economico, la capitale dell’oreficeria non è considerata più Napoli, come prima dell’annessione, ma la cittadina piemontese di Valenza. Ecco che fretta c’era.

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1861


CAPRIOLE GIURIDICHE



Dal 7 settembre 1860 la capitale del Regno delle Due Sicilie, Napoli, era occupata così come gran parte del territorio. Ma nel gennaio del 1861 si resisteva ancora: a Gaeta, a Messina e a Civitella del Tronto. Il Regno non era cessato e quello d’Italia, fino al 17 marzo 1861, non era ufficialmente iniziato. Terminata la VII Legislatura del Regno di Sardegna il 17 dicembre 1860, il 27 gennaio 1861 si tennero le prime elezioni politiche post invasione e il Parlamento si riunì per la prima volta in data 18 febbraio 1861. Dagli “Atti del Parlamento” si evince che alla seduta inaugurale il Re Vittorio Emanuele II venne accolto al grido di “Viva il Re d’Italia!” e, nel suo discorso, egli affermò che l’Italia era «libera ed unita quasi tutta». Sul Portale Storico della Camera dei deputati c’è la cronistoria delle legislature: dal Regno di Sardegna alla Repubblica Italiana. Il Parlamento che si riunì quel 18 febbraio è considerato il primo del Regno d’Italia, ma la legislatura ufficialmente si chiama VIII: l’ottava legislatura del Regno di Sardegna. Si trattò di mera annessione e non di unificazione e nascita di un nuovo Stato.
Tre giorni dopo, il 21 febbraio 1861, Cavour, Presidente del Consiglio dei ministri e anche Ministro degli Esteri del Regno di Sardegna (III Governo Cavour), presenta al Senato il progetto di legge con un unico articolo, in base al quale «Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia». Ma scrive su carta intestata del Ministero degli Affari Esteri e non su quella della Presidenza del Consiglio. Paradossale anche il contenuto, in cui spiega che tale presentazione avviene «Per ordine di S. M., e sul concorde avviso del Consiglio dei ministri». Infatti, nel documento a firma di Vittorio Emanuele si legge che egli ordina ed autorizza Cavour a presentare in Parlamento la legge che lo intitola Re d’Italia.
La nascita dell’Italia è dunque davvero grottesca: nel corso della VIII Legislatura del Regno di Sardegna (considerata però “prima” d’Italia) il Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna propone a Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, di autorizzare il Primo Ministro Cavour a presentare al Parlamento un progetto di legge, nel quale Vittorio Emanuele stesso assume il titolo di Re d’Italia. Dunque, questi ordina al suo Primo Ministro Cavour, che è anche Ministro degli Esteri, di presentare in Parlamento la legge che lo intitoli Re d’Italia, come aveva proposto il Consiglio dei ministri di Sardegna; Cavour esegue ma in qualità di Ministro degli Esteri! Ancora una volta è palese che si tratta di un drammatico inglobamento di un Paese estero indipendente, conquistato con una guerra.

Il 26 febbraio 1861 il Senato approva questo progetto di legge con 129 voti favorevoli e 2 contrari. L’11 marzo 1861 il Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna, Cavour, presenta alla Camera la medesima legge, affermando che «il Senato del Regno l’ha di già sancita con unanime voto»: è falso, perché 2 voti sono stati contrari. Comunque, ancora una volta, scrive su carta intestata del Ministero degli Affari Esteri, cosicché la legge per proclamare l’Italia e il suo Re, saranno per sempre un atto di politica estera del Regno di Sardegna: appunto un semplice ampliamento del proprio territorio. Il 14 marzo 1861 la Camera approva.

Il 17 marzo 1861 viene promulgata la legge n. 4671 del Regno di Sardegna, con cui nasce ufficialmente il Regno d’Italia con i Savoia come monarchi. Il 18 marzo la legge è pubblicata sulla neonata Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 68. Fino al 16 marzo si chiamava Gazzetta del Regno, tuttavia la numerazione di quella “d’Italia” continua il 17 marzo con il numero 67. Ulteriore prova che non vi è stato alcun nuovo inizio.

L’VIII legislatura del Parlamento durò, poi, ben oltre il 17 marzo: precisamente fino al 7 settembre 1865. Il III Governo Cavour del Regno di Sardegna cessò il 23 marzo 1861: quando addirittura era già stata fatta l’autoproclamazione a Regno d’Italia! E il successivo governo? Di nuovo Cavour, ma non venne chiamato “I Governo Cavour” del Regno d’Italia, ma “IV Governo Cavour”.
Riassumendo: la nascita del Regno d’Italia è stata una farsa piena di capriole giuridiche:
1) le prime elezioni “italiane” si tengono quando il Regno d’Italia ancora non esiste, mentre il Regno delle Due Sicilie esiste ancora;
2) il primo Parlamento italiano è ufficialmente considerato VIII Legislatura;
3) il primo Governo d’Italia è ufficialmente chiamato IV Governo Cavour;
4) la prima Gazzetta Ufficiale d’Italia ha il numero 67.
Il concetto di unità d’Italia ha mascherato quello autentico di annessione forzata del nostro libero Regno delle Due Sicilie.


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UNA SCOMODA MOZIONE

Non tutti nel Regno Unito apprezzavano e sostenevano l’occupazione delle Due Sicilie. Constantine Phipps, Marchese di Normanby, nel corso della seduta del 1° marzo 1861 propose una mozione alla Camera dei Lords di Londra, nella quale fece una lunga esposizione intorno agli “affari italiani”, anche stigmatizzando i comportamenti dei protagonisti dell’invasione del Regno delle Due Sicilie (9).
Il Marchese di Normanby nel 1861.

Nella relazione egli non risparmia osservazioni critiche a Vittorio Emanuele e alla sua doppiezza rispetto all’intervento di Garibaldi; ridimensiona il reale consenso di quest’ultimo a Napoli; denuncia la mancanza di serietà del plebiscito; ritiene ingiusto tacciare di brigantaggio una popolazione che si solleva in armi a favore del suo legittimo sovrano verso cui ha attaccamento; ha parole di rispetto verso Francesco II e sottolinea con chiarezza il fatto che alcuni generali erano stati comprati dagli invasori.

Nel corposo testo c’è una rilettura dei fatti - allora appena compiuti - che oggi viene solitamente inquadrata nel revisionismo storico. Erano in realtà elementi pienamente conosciuti ed acquisiti da chi, in quegli stessi drammatici giorni, aveva la sincerità e il coraggio di denunciare una terribile e meschina guerra di aggressione, con l’unico scopo di impadronirsi delle ricchezze della terra da conquistare.

A proposito del presunto consenso verso gli invasori, egli afferma che a Napoli: «National independence! When, at Naples, the interference of Piedmont was considered as much an interference with their national independence as the interference of Austria was considered at Lombardy». In pratica Phipps dice che a Napoli l’intervento del Piemonte era considerato un’ingerenza nella sua indipendenza nazionale, tanto quanto in Lombardia quella dell’Austria. Le invasioni sono invasioni sempre.

Toccanti le parole di Lord Phipps su Francesco II: «The moment Francis II proclaimed a Constitution he put himself in the hands of Liborio Romano, whom he made Minister of the Interior. This man was intrusted with the formation of the electoral lists, and the advancement generally of the Constitution, all of which he delayed as much as he could. He did all he possibly could, too, to prevent a change of generals, knowing the existing ones to have been bought. This was the state of things in which the young King of Naples was betrayed by those who pretended to be his friends; and it was this to which he alluded in a most touching manner in one of his Proclamations». Con queste parole Normanby mostra di avere ben chiaro che Francesco II fu boicottato dal Ministro dell’Interno Liborio Romano. Questi aveva il compito di fare avanzare la Costituzione già concessa; invece ritardò il più possibile ogni cambiamento, sapendo che i generali erano stati comprati: il giovane re fu ingannato da coloro che si fingevano suoi amici.
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(9) Per la trascrizione integrale della mozione: HL Deb, 01 March 1861, House of Lords, Hansard, vol. 161, cc. 1166-98.


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LA SORPRESA DI PASQUA


Ritaglio dal quotidiano di Napoli “Il Pungolo” del 2 aprile 1861
Nel giorno della prima Pasqua dopo l’annessione, che nel 1861 ricorreva il 31 marzo, Garibaldi fece una sorpresa ai napoletani. Scrisse di accettare l’elezione a deputato che, in un primo momento, aveva rifiutato.
Le elezioni si erano svolte il 27 gennaio e Garibaldi era candidato nel Collegio elettorale Napoli I (che all'epoca includeva: San Ferdinando, San Giovanni a Teduccio, Barra). L’esito della votazione in quel collegio fu:
- elettori 873
- votanti 452
- voti a Garibaldi 316.
L’altro candidato era il napoletano Amilcare Anguissola. Comandava la corvetta delle Due Sicilie “Veloce” ma nel 1860, mentre si trovava in acque siciliane, passò con Garibaldi. Quasi tutto l’equipaggio si rifiutò di seguirlo.
Dunque, per gli elettori la scelta era tra Garibaldi e un suo personaggio; circa la metà dei pochi che avevano diritto di voto, preferì non votare. Anguissola, che perse il confronto elettorale con Garibaldi, fu comunque eletto nel ballottaggio alle suppletive del 14 aprile 1861, candidato nel Collegio Napoli V (quartiere Avvocata).
Questa è una piccolissima storia che simboleggia il vizio antico di candidare al Sud colonizzatori del Nord e collaborazionisti locali, entrambi funzionali al mantenimento delle politiche di privilegio per il Centro-Nord. I politici meridionali, con i loro assensi e silenzi, sono tutt’oggi i principali responsabili della condizione di emarginazione del nostro territorio.

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SEGRETISSIMO

Il 28 novembre del 1861 alla “Chambre des Représentants” di Bruxelles venne avanzata un’interrogazione parlamentare al Ministro degli affari esteri Charles Rogier. Massone e politicamente “pragmatico”, costui era tra i favorevoli al riconoscimento belga del neonato Regno d’Italia, sostenendo che anche quando i malcontenti resistono le potenze straniere devono riconoscere un nuovo Stato. A nulla valeva fargli notare che Vittorio Emanuele e il suo governo stessero compiendo inaudite iniquità. L’interrogazione, non a caso, era stata posta a proposito di un cittadino belga, il marchese Alfred De Trazegnies, il quale, coinvolto nella «guerre civile dans le midi de l’Italie», era stato fatto prigioniero e subito passato per le armi dall’esercito italiano: un colpo alla nuca, poi il cadavere denudato e gettato in una fossa comune.

Charles Rogier (foto del 1862).
Il fatto era accaduto l’11 novembre 1861 a San Giovanni Incarico, nella valle del Liri. Trazegnies era un giovane e colto belga di ventinove anni, che aveva lasciato la propria terra e la condizione familiare rassicurante per unirsi alla resistenza duosiciliana, animato dai suoi ideali e da motivazioni di carattere sentimentale; a Roma aveva anche incontrato Francesco II. Si unì a Luigi Alonzo, detto Chiavone, nella zona tra Due Sicilie occupate e Stato Pontificio minacciato. Il quotidiano “Journal de Bruxelles”, nel numero del 2 dicembre 1861, offese pesantemente il ministro Rogier accusandolo di fredda indifferenza verso la tragica vicenda del connazionale. A quelle parole Rogier aveva fatto seguire una querela al giornale, trattata il 21 dicembre 1861 innanzi al Tribunale della capitale belga. Gli interventi in udienza furono riportati da “Le Moniteur Belge” del 22 dicembre, giornale ufficiale che dal 1830 pubblicava gli atti del Regno del Belgio. Nel riferire il testo del “Journal de Bruxelles”, viene menzionata la pubblicazione di un libricino che avrebbe portato verità su quel preteso Regno d’Italia: “La verité sur les hommes et les choses du prétendu royaume d’Italie”, a cura di un agente segreto. Anche “La Belgique Judiciaire”, gazzetta dell’attività giudiziaria, il 16 febbraio 1862 riporta gli atti di quel processo e la citazione del libretto il cui autore era stato una spia piemontese-italiana.
Le Moniteur Belge,
prima pagina del 22 dicembre 1861.

Si trattava di Filippo Curletti che il Luogotenente per le provincie napoletane, Luigi Carlo Farini, il 15 dicembre 1860 aveva chiamato a svolgere il ruolo di capo della polizia a Napoli per reprimere il dissenso. Curletti era tutt’altro che integerrimo: l’11 settembre 1861, esattamente due mesi prima dei fatti di San Giovanni Incarico, era stato condannato dalla Corte d’Assise di Torino a venti anni di lavori forzati, per avere preso parte alla “Cocca”. Si trattava di una banda criminale che godeva di connivenze nelle locali forze dell’ordine e in esse Curletti aveva precedentemente prestato servizio. Questo personaggio fu messo a comandare a Napoli la repressione del dissenso all’annessione.

La Belgique Judiciaire,
prima pagina del 2 febbraio 1862.
Curletti, in possesso di segreti scomodi e protezioni, non scontò mai la pena, perché riuscì a fuggire dapprima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, dove mori nel 1876. Le sue rivelazioni - il libricino citato in tribunale a Bruxelles - furono pubblicate in lingua francese e sotto pseudonimo nel 1861 in Belgio e poi, nel 1862, in italiano a Venezia che non faceva ancora parte del Regno d’Italia. L’ex agente inizia così: “Sono stato per più di due anni l’agente secreto del conte di Cavour”. Racconta retroscena a dir poco imbarazzanti su come fu fatta l’Italia e la conclusione cui giunge, da navigato uomo di torbidi recessi, è: “L'unità d’una nazione non si crea; bisogna aspettare che nasca alla sua volta. Allora soltanto potrà esser forte ed aver vita”.

Due storie incrociatesi senza che i loro protagonisti si conoscessero: il giovane romantico idealista e la consumata spia degli invasori. Trazegniez giustiziato senza processo compiuto e Curletti processato senza giustizia compiuta. Vicende emblematiche di quell’Italia “risorgimentale” ancora oggi oscurata come fosse un dossier segretissimo.

Decreto di nomina di Filippo Curletti
(in Atti Officiali, n. 26/1860).

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PULIZIA CULTURALE

Il 19 dicembre del 1861 entrava in vigore il Regio Decreto 12 settembre 1861, n. 99, “Contenente alcune disposizioni intorno agli Educandati femminili esistenti nella Città di Napoli”, pubblicato il 4 dicembre dello stesso anno. Si trattava di un nuovo regolamento che recava, tra le tante, anche una norma di controllo sociale particolarmente vessatoria.
 Ritaglio dalla Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia,
Supplemento al n. 294 del 4 dicembre 1861.
La premessa necessaria per comprenderne la portata è che le istitutrici, le quali vivevano stabilmente negli educandati, erano le figure più importanti dal punto di vista educativo ed affettivo per le allieve: bambine e adolescenti, generalmente dai 6 ai 18 anni, che stavano a stretto contatto con queste educatrici tutti i giorni.
Ebbene, l’art. 32 del nuovo regolamento prevedeva che le istitutrici fossero scelte preferibilmente tra le giovani nate o educate in Toscana. Si trattava di una sorta di pulizia linguistico-culturale oltre che, naturalmente, dell’esercizio di un controllo politico, considerando che molte delle istitutrici in servizio e delle stesse allieve più grandi erano ben distanti dal “nuovo ordine di cose” scaturito dall’annessione. Si percepisce tutta l’azione di nazionalizzazione forzata che si intraprendeva e che, peraltro, in questo caso incideva anche sull’assegnazione di posti di lavoro.

La presenza di questa norma è grave: una testimonianza del processo di colonizzazione culturale e di spegnimento dell’identità che, peraltro, ancora oggi si percepisce distintamente in tanta prassi educativa.


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IL REGALO DI NATALE

Il 21 dicembre 1861, in prossimità del primo Natale dell’Italia “unita”, c’è un regalo per le ex Due Sicilie oramai chiamate province meridionali. Quel giorno sulla Gazzetta Ufficiale viene pubblicata la Legge 5 dicembre 1861 n. 362 con la quale, a partire dal 1° gennaio 1862, è estesa alla nostra terra la tassa per la guerra: una sovrimposta del 10% (cosiddetta “decima”) su un elenco spaventoso di voci, compresa l’imposta «personale o di famiglia» che, prima dell’annessione, il popolo duosiciliano non pagava.
Questa legge è stata formalmente abrogata solo il 22 dicembre del 2008 (D.L n. 200 convertito con Legge 18 febbraio 2009 n. 9 - Gazzetta Ufficiale n.42 del 20/2/2009 - Supplemento Ordinario n. 25).

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1862

GRANDI EVENTI 


La notizia su un giornale dell’epoca.
Siamo nel 1862, a gennaio: non è trascorso neppure un anno dalla cosiddetta unità. Alla Camera dei Deputati di Torino, il 18 del mese si svolge un dibattito su una proposta di legge dell’on. Carlo De Cesare: assegnare a Napoli la seconda edizione (la prima era stata fatta a Firenze nel 1861) della “Esposizione nazionale agraria, industriale e delle belle arti”, prevista per il 1863.
Il deputato Raffaele Conforti sostiene il progetto e spiega che sarebbe giusto e conforme ad «un principio di italianità» assegnare a Napoli il grande evento, perché la città si è già sacrificata rinunciando alla “sua autonomia per amore dell’unità”: bisogna “compensarla coll’incoraggiare il suo commercio e la sua industria”. 
L’art. 1 dell’originale progetto di legge reiterato a giugno.
Parole d’una ipocrisia immensa: che cos’è l’italianità? Quando è che Napoli ha rinunciato all’autonomia per amore dell’unità? Non le è stata forse sottratta con le armi? Quanto alla presunta compensazione (come si compensa la perdita dell’indipendenza?) e all’incoraggiamento economico, seguite il finale della storia.
Conforti, intanto, è il classico “eroe” risorgimentale. Già alto magistrato del Regno delle Due Sicilie, era stato condannato a morte per avere partecipato ai moti del 1848. Fuggito in Piemonte, viene poi amnistiato da Francesco II; tornato a Napoli, con ingratitudine appoggia Garibaldi contro il suo benefattore, finanche organizzando il plebiscito-farsa dell’ottobre 1860.
Nel corso di quella seduta della Camera del 18 gennaio 1862, formalmente nessuno si oppose all’iniziativa. Parve cosa fatta; poi però la storia prese un corso diverso. La proposta restò lettera morta e venne reiterata il 12 giugno dello stesso anno, questa volta direttamente dal Conforti ma, alla fine, nel 1863 non si tenne alcuna esposizione. L’evento sarà rinviato al 1871, decennale dell’unità e della prima edizione. In quale città si svolse l’Esposizione? A Milano.
  


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TRATTATO COME UN NAPOLETANO

Il 2 aprile del 1862 James, un giovane inglese di 27 anni, figlio del Reverendo Alfred Bishop pastore anglicano a Martyr Worthy, un piccolo villaggio nella zona di Winchester, sale alle quattro del mattino sulla carrozza postale diretta a Roma. Cagionevole di salute, si era trasferito a Napoli per vivere in un clima più conveniente. Ha con sé gli effetti personali, una borsa da lavoro con chiusura a chiave, il passaporto vistato dal Console britannico locale e da quello di Roma. Ad accompagnare James alla vettura c’è l’amico Schmid; mentre i due si salutano, il vetturino li ascolta parlare in tedesco.

La carrozza viaggia senza impedimenti; giunta a Capua, effettua una sosta. Il percorso riprende in direzione Terracina e alla dogana, prima di entrare nel territorio dello Stato Pontificio, si procede al controllo del passaporto. James supera questa formalità senza problemi e la vettura riparte. Ma subito dopo viene fermata da quattro agenti di pubblica sicurezza del Regno d’Italia: il giovane è costretto a scendere e avviarsi scortato negli uffici. Qui trova ad attenderlo gli stessi che gli avevano controllato il passaporto, più altri agenti.
James viene spogliato, perquisito, insultato, percosso. Il vetturino, che è un ex garibaldino piemontese, entra e gli si rivolge in tedesco. Lo accusa di non essere inglese, riferisce di averlo sentito parlare in tedesco alla partenza: dev’essere svizzero o austriaco. Era stato lui, durante la sosta a Capua, a telegrafare invitando a fermare il passeggero perché persona sospetta. Invano il giovane chiede di parlare col Console britannico e si rifiuta di aprire la borsa.
La carrozza postale riparte, James resta nelle mani dei suoi aguzzini che aprono la cartella. Insieme a documenti personali, tra cui una foto della madre e un ritratto di Francesco II, vi trovano alcune lettere di amici dissidenti di Napoli destinate a Roma e contenenti informazioni sulla resistenza. Viene accusato di essere un cospiratore.
Monumento funebre di Bonham a Folkestone;
l’epigrafe si ricorda che fu Console generale a Napoli.
Per due giorni James è piantonato in una locanda a Mola di Gaeta, poi è trasferito a Capua e da lì, in treno, mandato a Napoli dove arriva il 4 aprile nel tardo pomeriggio. In Questura viene interrogato e trattenuto altri tre giorni, durante i quali vede una sola volta il Viceconsole. Nel corso della prima notte, in città vengono effettuati arresti sulla base di nomi raccolti nei documenti trasportati da James. Le carceri napoletane già scoppiano di prigionieri politici.
Al Console generale britannico a Napoli, Edward Walter Bonham, viene proposto un rilascio di James su cauzione, qualora lui se ne faccia garante. Ma Bonham evidentemente ritiene di non doversi compromettere in favore di un presunto cospiratore, sebbene cittadino britannico, che di fatto contraddice palesemente la politica del suo Governo. La risposta è come una profezia, uno spunto per una drammatica riflessione ancora oggi: «Let him be treated as a Neapolitan», lasciate che venga trattato come un napoletano.
Mr. James Bishop venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Apparente a Napoli, dove attese per mesi di essere processato. I primi giorni dormì sul pavimento, perché i prigionieri politici non avevano diritto al letto, ma dovevano farselo inviare dall’esterno. Perse l’unico riferimento che gli era rimasto in città: anche l’amico Schmid, infatti, fu arrestato.

Il 7 settembre 1862 fu condannato a 10 anni di carcere e lavori forzati; la Corte d’Appello confermò la condanna.
Il 3 febbraio 1863 Bishop venne trasferito nella fortezza piemontese di Gavi per scontare la pena, dove il clima certo non lo aiutava. Portato in un’infermeria ad Alessandria, fu messo in una stanza da condividere con un malato terminale di tifo.
Il 23 aprile 1863 scrisse una lettera ai genitori: «God knows whether I can hold out strong to the end», Dio solo sa se posso resistere fino alla fine. Il ragazzo venuto dalla campagna di Winchester, che aveva teso una mano al nostro popolo oppresso, dall’Italia fu “trattato come un napoletano”.

La madre di James Bishop, Lucy Sarah Anne Wedderburn nata nel 1812, aveva sposato il Rev. Alfred Caesar Bishop nel 1834. I due ebbero 12 figli, ma ben 7 morirono da neonati: dolorosa circostanza che segnala il tasso di mortalità infantile in Inghilterra all’epoca. Il 14 febbraio 1864 dal piccolo villaggio nella zona di Winchester, Lucy scrive a Francesco II, in esilio a Roma, una lettera di supplica e piena di sentimenti materni (10). Lo ringrazia per avere accolto benevolmente presso di sé il figlio ormai liberato (forse per l’indulto previsto dal Regio Decreto del 17 novembre 1863) e chiede possibilmente di trovargli qualche occupazione utile e dignitosa, che tenga conto della sua delicatezza.

Lady Wedderburn Bishop racconta della decisione del figlio: restare fedele alla causa, devoto e fisicamente vicino al Re, era suo desiderio insuperabile, anche se lei invece avrebbe preferito che ritornasse in Inghilterra. La signora esprime i propri sentimenti di fierezza per la tenacia del ragazzo, che aveva sopportato tante angherie nei due anni della sua carcerazione, senza mai tradire. La madre di James riferisce di essere stata a Torino e avere parlato con ministri i quali hanno confermato con meraviglia la costanza del giovane, nonostante la malattia e le tentazioni: «Vous pouvez avec raison d’être fier de votre fils» - le dicono - lei può a ragione essere fiera di suo figlio. Parole, quelle del neonato Regno d’Italia, di un’ipocrisia sfacciata, giacché lo Stato era precisamente responsabile della sofferenza del ragazzo e di tutta la repressione nelle ex Due Sicilie annesse. E, chissà, magari lo stupore per tanta lealtà rispondeva all’intima consapevolezza di aver vinto la guerra anche grazie alla corruzione.

Appena due mesi dopo aver scritto questa lettera, Lucy Sarah Anne Wedderburn morì nel suo villaggio di Martyr Worthy il 24 aprile 1864 all’età di 52 anni; fu sepolta a Winchester. Il marito, il Rev. Alfred Caesar Bishop nato nel 1811, le sopravvisse fino al 1885.

James Francis Joseph Bishop, il giovane dal cuore grande, impegnato per la liberazione della nostra terra, morì nella città di Reading nel 1917 all’età di 82 anni. Non accettò compromessi per sé anzi, come riferito nella lettera della madre a Francesco II, «il n’avait qu’un regret, celui de rien accomplir pour la cause»: non aveva che un rimpianto, non aver realizzato nulla per la causa.
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(10) La missiva, da cui è anche tratta l'immagine, è conservata nell’Archivio di Stato di Napoli, Fondo Archivio Borbone, Carte del Re Francesco II – Corrispondenza di Francesco II con diversi, b. 1148, cc. 117-120.



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1863




DIRITTO INTERNAZIONALE

L’8 maggio 1863 alla Camera dei Comuni di Londra si svolse un dibattito sul commercio britannico con Napoli, che fu anche l’occasione per denunciare la violenta repressione della popolazione nelle ex Due Sicilie.
Alexander Baillie Cochrane (a sx) e George Cavendish Bentinck.
Tra i tanti interventi vorrei ricordare le parole di Cavendish Bentinck sull’invasione di Napoli, la quale era avvenuta “senza pretesto per guerra, o anche una dichiarazione di guerra, creando così un precedente sotto il quale i federali americani potrebbero in qualsiasi momento invadere il Canada”; per lui quegli avvenimenti erano «gross infractions of the law of nations»: gravi infrazioni al diritto internazionale. Bentinck si chiese se il nuovo ordine delle cose avesse apportato qualche miglioramento rispetto al vecchio sistema: «But was the new order of things any improvement on the old system?” La sua risposta fu che con il governo borbonico le esecuzioni capitali erano rare, mentre adesso migliaia di persone erano state fucilate spietatamente senza processo. Cita Pietro Fumel («monster Fumel»), l’ufficiale originario di Ivrea che il 12 febbraio del 1862 aveva emesso il proclama considerato l’inizio formale della feroce repressione della resistenza delle ex Due Sicilie (11).
Baillie Cochrane, poi, nel suo intervento riporta per intero il testo del documento, introducendolo con le seguenti devastanti parole sulla connivenza delle istituzioni italiane: “Alla Camera di Torino si è parlato ultimamente del Maggiore Fumel in termini di elogio da parte del Governo”. La conclusione del suo discorso risuona in tutta la sua terribile verità. Il governo britannico ha fallito perché ha contribuito a trasmettere nell’animo della propria gente un’impressione erronea rispetto alla felicità che generalmente si supponeva esistesse nel Regno d’Italia: «an erroneous impression with respect to the happiness that was generally supposed to exist in the kingdom of Italy» (12).

Anche Lord Henry Lennox intervenne nel dibattito. Egli aveva visitato Napoli nel 1862 da “fervente sostenitore di Vittorio Emanuele” – secondo la sua affermazione – e si era recato anche in alcuni penitenziari, tra questi quello femminile di Santa Maria ad Agnone, autorizzato dal prefetto Alfonso La Marmora: il generale piemontese che, in tal veste, incarnava la militarizzazione repressiva di Napoli.
L’8 maggio 1863 Lennox fece, dunque, un resoconto alla Camera dei Comuni di ciò che aveva visto in quei giorni, denunciando il clima di oppressione che regnava nelle ex Due Sicilie annesse al neonato Regno d’Italia. Il suo intervento si può paragonare alla mozione del Marchese di Normanby alla Camera dei Lords nell’anno precedente (13), tanto che Lennox dovette precisare di non avere rapporti di parentela con lui!
Lord Lennox (1860).
Nel lungo discorso egli si soffermò sul dispotismo del regime che si manifestava, ad esempio, in un rigido controllo della stampa. A Napoli cita il caso di ben 27 giornali che avevano subito violenze da parte della polizia e avevano poi cessato le pubblicazioni. Raccontò l’assalto al giornale chiamato “Il Napoli”, da parte di una squadraccia di duecento persone capeggiate dalla Guardia nazionale, quella utilizzata per reprimere le rivolte e la resistenza detta brigantaggio. Fecero irruzione nei locali, distrussero la macchina da stampa, strapparono i giornali, sparsero i caratteri in giardino e minacciarono di morte il direttore se avesse mai pubblicato un solo altro numero.
Nella visita alle carceri, Lennox era accompagnato da un deputato locale. Nonostante la visita fosse autorizzata – e di diritto per il deputato – nei giorni seguenti furono entrambi oggetto di attacchi sui giornali allineati, perché accusati di complottare contro il Governo di Torino. La denuncia di Lennox riguardava soprattutto la carcerazione senza interrogatorio, senza processo, di un’infinità di persone per motivi politici. A Santa Maria ad Agnone, dunque, si imbatté in donne rinchiuse per “simpatie politiche”. Tra queste, tre sorelle che si chiamavano Francesca, Carolina e Raffaella Avitabile: recluse da ventidue mesi perché sospettate di aver appeso alla finestra una bandiera delle Due Sicilie.
La conclusione del discorso di Lord Lennox è commovente, soprattutto considerando le sue pregresse posizioni politiche filosavoiarde:
«I shall welcome with grateful joy any reforms, by whomsoever brought about, which will restore to that fair land—fairest among the fair—the possession of happiness and liberty, and does not leave her any longer a prey to the worst of despotisms and the most maddening of sufferings».
Cioè: “Accoglierò con grata gioia ogni riforma, da chiunque operata, che restituisca a quella bella terra - la più bella tra le belle - il possesso della felicità e della libertà, e non la lasci più a lungo preda del peggiore dei dispotismi e della più esasperante delle sofferenze” (14).
La cosiddetta unità d’Italia è anzitutto questo.

L’8 agosto seguente, Francesco II indirizzò a Lord Lennox una lettera (15) di ringraziamento in lingua francese; eccone il testo.
La minuta della lettera di Francesco II (ASN).
«Milord
ho letto in questi ultimi giorni, tradotti in francese, gli ammirevoli discorsi che avete pronunciato alla Camera dei Comuni sullo stato dell’Italia e distintamente sulla situazione desolante delle Due Sicilie. Vengo a ringraziarvi di aver levato la vostra voce in favore dei miei popoli oppressi. Siete stato l’eloquente difensore di uno sfortunato paese, che vede la sua indipendenza confiscata e i suoi figli inviati alla morte, senza altra forma di processo che l’ordine arbitrario di un funzionario straniero o di un qualsiasi ufficiale dell’esercito piemontese.
I princìpi che avete amato, e l’energia con la quale avete difeso i diritti della vera libertà e dell’eterna giustizia, saranno per sempre cari agli uomini che non sono disposti a misurare la giustizia di una causa dal suo trionfo o dalle sue sconfitte ed io sono felice, per parte mia, di testimoniarvi la profonda stima che mi ispirano la vostra intelligenza, la vostra lealtà e il vostro coraggio.»

Accanto al ringraziamento e all’elogio del coraggio di Lord Lennox, Francesco esprime alcune considerazioni importanti, che possono essere così riassunte: la repressione in atto nelle ex Due Sicilie è dominata dall’arbitrio e dalla impossibilità di difendersi veramente; il valore di una causa non si giudica dal suo successo. Parole di grande attualità per le nostre comunità.

Il 25 agosto 1863 Lord Lennox rispose alla lettera di Re Francesco esprimendogli ulteriormente i sentimenti di partecipazione al dolore del nostro popolo e di gratitudine per l’attenzione avuta nei suoi confronti.

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(11) Il 23 ottobre 1860 il Generale Manfredo Fanti aveva già emesso il cosiddetto Bando di Isernia in cui si prevedeva l'istituzione di Trinìbunali militari straordinari. Inizia di fatto la repressione della nostra resistenza che è etichettata come brigantaggio: «bande armate a brigantaggio».

(12) I discorsi di George Cavendish Bentinck e Alexander Baillie Cochrane possono essere letti in: House of Commons, Hansard, vol. 170, col. 1399-1412 e coll. 1461-1463.

(13) Constantine Phipps Marchese di Normanby, mozione alla Camera dei Lords, Londra, 1 marzo 1861, in House of Lords, Hansard, vol. 161.

(14) Henry Charles George Gordon-Lennox, discorso alla Camera dei Comuni, Londra, 8 maggio 1863, in House of Commons, Hansard, vol. 170, col. 1440.

(15) Conservata in minuta nell’Archivio di Stato di Napoli, Fondo Archivio Borbone, Carte del Re Francesco II – Corrispondenza di Francesco II con stranieri, b. 1149, cc. 1006-1007.

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Per concludere, una tabella con alcuni essenziali eventi immediatamente successivi al 7 settembre, giorno dell'occupazione di Napoli, e culminati il 17 dicembre 1860 con l’annessione del Regno delle Due Sicilie.






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